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 2023  gennaio 15 Domenica calendario

Le memorie di Amartya Sen

Il mondo è la mia casa recita il titolo del memoir di Amartya Sen. Ed è più che una semplice allusione alla vita cosmopolita dell’economista e filosofo premio Nobel per le sue ricerche su povertà e sviluppo, partito da un villaggio a un centinaio di chilometri da Calcutta e approdato alle cattedre di Cambridge, Oxford e Boston. Ad Harvard, ancora oggi – dall’alto dei suoi quasi 90 anni (li compirà a novembre) – continua a insegnare come la questione della democrazia sia centrale, anche in economia e contro le carestie.
Ma si sente ancora a casa Amartya Sen in un mondo che sta invertendo la rotta, con regimi autoritari che guadagnano terreno e le democrazie sotto attacco: dall’esterno come in Ucraina, o dall’interno, come è accaduto due anni fa a Washington e nei giorni scorsi a Brasilia? «Stiamo attraversando una fase pericolosa, questa tendenza autoritaria si sta rafforzando a livello globale» dice Sen a «la Lettura», mettendo da parte il sorriso e il consueto sguardo ottimistico sul mondo che lo accompagna anche quando racconta esperienze dolorose.
Incontriamo Sen durante una recente visita a Roma con la moglie Emma Rothschild. Si muove a fatica. Si dice provato dalla stesura di questo testo, oltre 500 pagine sui primi 30 anni della sua esistenza, gli anni formativi, i più significativi per capire le radici del suo impegno. «Mi è piaciuto riscoprire la mia vita, non avevo mai avuto modo di farlo prima. Mi ha ispirato mia sorella Supurna, detta Mandiu (compare con lui bambino nella cover, ndr), morta 10 anni fa, è stato per me un grande dolore», ricorda sorseggiando una tazza di tè. Si dice affaticato ma mostra la curiosità di sempre, chiede della premier Giorgia Meloni, che apprezza per la presa di posizione netta contro l’aggressione russa all’Ucraina. «I Paesi democratici dovrebbero dichiarare con determinazione e senza ambiguità la propria contrarietà in modo da resistere al generale incitamento alla violenza», sostiene. L’India, dopo avere rifiutato per mesi di condannare la guerra di Putin, ha da poco ripreso lo zar. «Non credo che questo segni alcuna svolta – osserva Sen —, il problema è che l’India non ha sviluppato una chiara politica globale».
Eppure, con il suo attivismo internazionale, New Delhi sembra puntare a un ruolo di primo piano in geopolitica, forte anche dei buoni rapporti sia con la Russia che con l’Occidente: aderisce insieme a Mosca e Pechino all’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai; e sta con Usa, Giappone e Australia nel Quad, il gruppo delle principali democrazie dell’Indo-Pacifico. A luglio, quando l’Onu e la Turchia hanno mediato l’accordo per sbloccare tonnellate di grano ucraino di cui l’India aveva disperatamente bisogno, New Delhi ha svolto un ruolo importante dietro le quinte per vendere il piano al Cremlino. Due mesi dopo, quando i russi stavano bombardando la centrale nucleare di Zaporizhzhia, New Delhi è intervenuta chiedendo a Mosca di fare marcia indietro. Ora la presidenza del G20 offre al Subcontinente una grande opportunità per mettere alla prova il suo potere e la sua credibilità nell’affrontare un ordine globale frammentato. C’è chi pensa che potrebbe mediare per la pace in Ucraina.

«Questa guerra è confusa, e forse rimarrà tale per molto tempo – prevede Sen —. Di certo la Russia non sta tenendo in debita considerazione il beneficio che ognuno dei due Paesi potrebbe trarre dalla pace. Quanto al possibile ruolo di New Delhi sono perplesso. La sua politica interna è confusa e, di conseguenza, la sua capacità di svolgere un ruolo geopolitico serio appare piuttosto debole. Le pretese dell’India sono molto più forti delle sue effettive capacità».
A ispirare qualsiasi mossa di New Delhi sullo scacchiere internazionale è il progetto politico del premier Narendra Modi riassunto nello slogan Atmanirbhar Bharat , «India autosufficiente». L’ambizione è quella di recuperare il proprio passato di splendore pre-coloniale, cioè pre-islamico e pre-britannico, e «riprendersi» il posto ai vertici della comunità internazionale. Un paradigma intriso di populismo mitologico. La parola d’ordine è evitare le alleanze e sfruttare i conflitti del mondo multipolare, come chiarisce il ministro degli Esteri Subrahmanyam Jaishankar nel saggio The India Way. La «nuova» diplomazia indiana fa perno sul nazionalismo per lanciarsi come potenza internazionale. Un nazionalismo etnico-religioso basato sulla cultura indù. Al «bazar» delle nazioni, per l’India non ci sono alleati o amici, ma solo partner o, per dirla con Jaishankar, «frenemici» (contrazione di friend e enemy, amico e nemico). Una linea più che pragmatica, quasi opportunistica.
Sen è molto meno severo con Xi Jinping che con Modi. «I cinesi maltrattano le persone, in termini di democrazia e diritti umani, è vero, purtroppo. Ma hanno anche aumentato il livello di istruzione e sviluppato servizi sanitari per tutti, più che in qualsiasi altro Paese dell’Asia o del Medio Oriente. Le racconto un’esperienza emblematica: una studentessa cinese mi ha avvicinato durante una conferenza a Pechino e poi è venuta due anni a Boston per fare con me il PhD, il dottorato di ricerca: è stata finanziata da Pechino! Non sono quindi sorpreso che la Cina stia facendo meglio dell’India, la cui democrazia è fortemente deteriorata. L’India, dopo essersi spesa per raggiungere uno status democratico – è stata il primo Paese non occidentale a puntare sulla democrazia – ora sta facendo di tutto per perderlo», constata con amarezza Sen. Il mondo se n’è accorto soprattutto tre anni fa, quando New Delhi ha revocato l’autonomia al Kashmir, l’unica regione indiana a maggioranza islamica.
«Considerare l’induismo come l’unica identità nazionale va contro la nostra Costituzione. È triste vedere l’ideologia hindutva così politicamente dominante oggi in India. Anche il tentativo del governo di rendere l’hindi la lingua principale del Paese è sconsiderato. L’India è un Paese con molte lingue e culture diverse e trae la sua forza dalle sue tante tradizioni. Se all’hindi fosse assegnata una posizione privilegiata ci sarebbe l’opposizione di altri grandi gruppi linguistici, come il tamil, il marathi, il bengalese o il telegu. Lo Sri Lanka è entrato in conflitto quando hanno cercato di imporre una formula monolinguistica al Paese».
L’economista è anche contrariato dall’uso dilagante dell’Uapa (sta per Unlawful Activities Prevention Act) da parte del governo nazionalista impegnato a reprimere ogni forma di dissenso. «Succede come durante il dominio britannico. I miei zii venivano mandati in prigione in detenzione preventiva, non perché avessero fatto qualcosa di sbagliato ma perché avrebbero potuto farla. Non mi aspettavo di rivivere queste situazioni, ma è così, il diritto a non essere d’accordo di nuovo non è riconosciuto».

Sen porta con sé il fiume turbolento della storia indiana, della speranza di un decollo, della fede in uno Stato sociale minimo, della lotta al sistema delle caste. Si capisce come l’attuale clima di intolleranza sia difficile da accettare per uno che si è formato nel confronto: in collaborazione con l’economista pachistano Mahbub ul Haq ha ideato l’«indice di sviluppo umano», adottato dall’Onu; di famiglia induista sulla carta ma di fatto laica, racconta le proficue conversazioni con buddhisti, musulmani, cristiani. Da studente a Cambridge frequentava tutti i circoli, compresi i più conservatori. La sua guida principale per gli studi lì era l’amico di Antonio Gramsci, Piero Sraffa – che gli fece conoscere tra l’altro il piacere del caffè ristretto —, ma incontrava ogni settimana anche Peter Bauer, futuro deputato thatcheriano. E per quanto non smetta mai di citare Adam Smith, padre del liberalismo economico, non si può classificare Sen come un pensatore di destra. L’ideologo delle identità plurali e del multiculturalismo ha messo in guardia sulle monoculture, dove la ricerca dell’identità spesso si riduce al culto delle origini. Ma ora la sua casa-mondo ricostruita attorno a una tazza di tè vacilla.