La Lettura, 15 gennaio 2023
Il prossimo romanzo di Salman Rushdie
«Maestosa, Parvati siede accanto a Shiva sul Kailasa. Davanti a lei si inchinano tutte le creature, non sicure di attirare la sua attenzione. Talvolta Parvati appare inquieta...», scrive Roberto Calasso in Ka (Adelphi), il suo libro dedicato ai miti indù. Parvati, dea dell’intelligenza e della maternità, moglie di Shiva creatore dell’universo, reincarnazione di Sati la moglie di Shiva che si autoimmolò in sacrificio, madre di Ganesha, è il motore del nuovo romanzo di Salman Rushdie, Victory City (Random House) che esce negli Usa il 7 febbraio e nel Regno Unito il 9, e che «la Lettura» ha potuto leggere in anteprima.
In una delle sue forme, dal nome Pampa, Parvati dà il nome alla protagonista, una bambina di nove anni: nell’India meridionale del XIV secolo, la bimba, Pampa Kampana, riceve dalla dea da cui prende il nome poteri che superano l’umana immaginazione: li userà per creare – con la sua fantasia, dal nulla – un impero fantastico, che vivrà attraverso tre secoli, l’impero Vijayanagara, «la città della vittoria», Victory City per l’appunto.
La storia di Pampa che vivrà 247 anni – il romanzo è diviso in quattro parti: Nascita, Esilio, Gloria, Caduta – è la storia dell’impero nato da un rogo di donne, le vedove di una battaglia perduta dai loro uomini, nato nel dolore per dare pari dignità, diritti e potere a uomini e donne.
Rushdie torna così all’India delle origini, all’India di I figli della mezzanotte (classica traduzione di Ettore Capriolo prima per Garzanti e poi per Mondadori, casa che ha portato in Italia la sua opera omnia) e tanti altri libri – se c’è una parte meno forte della sua opera è proprio quella «americana».
In Victory City c’è un richiamo obliquo, delizioso, al penultimo romanzo di Rushdie, pubblicato nel 2019, Quichotte: chi è l’autore del Don Chisciotte? Cervantes, esule rapito dai pirati e loro prigioniero per cinque anni prima della liberazione, una storia di per sé incredibile? O l’autore è Cide Hamete Benengeli, storico che Cervantes stesso ci dice essere l’autore della maggior parte dell’opera? O il traduttore del mercato di Toledo pagato con 25 libbre d’uva passa? In Victory City Rushdie ci spiega che il manoscritto di Pampa, nascosto in una giara al momento della sua morte, viene ritrovato (da chi? come?) e tradotto dal sanscrito all’inglese dall’anonimo «autore» di Victory City — ancora una volta Rushdie si diverte a scomparire (l’ha fatto perfino nella sua autobiografia che prende il titolo dal nome del suo alter ego, Joseph Anton, come Conrad e Cechov, pseudonimo usato per motivi di sicurezza negli anni della fuga dai sicari degli ayatollah).
Victory City è dunque la traduzione di «Vittoria e sconfitta», 24 mila versi, trovato dentro un’urna e portato a noi lettori del 2023, nel quale – fin dalle prime pagine – il lettore resta ipnotizzato da quel regno scomparso che un tempo occupava tutta l’India meridionale, «le donne guerriere, le montagne d’oro, la generosità del suo spirito e i suoi momenti di cattiveria, le sue debolezze e le sue forze».
In Quichotte Rushdie si divertì fragorosamente nel dominio totale dei mezzi tecnici della scrittura, accompagnando il lettore in un viaggio mirabolante e triste, ventuno capitoli con titoli altisonanti da romanzo cavalleresco, immaginando un commesso viaggiatore (di farmaci) drogato di tv, di origine indiana, che parte alla ricerca della sua Dulcinea, star della televisione.
Victory City, al contrario, è un romanzo di sobrietà assoluta, magicamente laico pur narrando una storia di dèi indù, inorridito dalla vacuità della violenza e rassegnato alla vittoria finale dell’ignoranza e della crudeltà. La città della vittoria, l’impero delle donne, finirà distrutto per futili motivi, tanto più deprimenti quanto più il lettore ripensa alla maestà della sua bellezza.
È, paradossalmente, un romanzo realista, sul 2023, e leggerlo è impossibile senza pensare alla barbarie dell’attacco che ha colpito Rushdie il 12 agosto dell’anno scorso, 33 anni dopo la fatwa, e l’ha lasciato gravemente ferito, ferite dalle quali non potrà guarire. Rushdie, che attraverso i decenni ha speso la sua fama per aiutare i colleghi scrittori vittime delle dittature, a ogni evento del Pen Club al quale partecipava insisteva perché ci fosse sempre, sul palco, una sedia vuota. Per ricordare gli scrittori in fuga, in carcere, impossibilitati a partecipare.
Ora che Victory City fa il suo ingresso nel mondo, Rushdie non ci sarà, ancora convalescente per le coltellate di un uomo che, ovviamente, ha ammesso di non avere letto I versi satanici, e di avere agito per sentito dire. La sedia vuota, adesso, è la sua. Al suo posto ci saranno i suoi amici e i colleghi scrittori, negli Stati Uniti (Michael Cunningham, A.M. Homes, Gary Shteyngart, Hari Kunzru, Colum McCann), e nel resto del mondo.
Come il protagonista di I figli della mezzanotte, Saleem Sinai nato a Bombay il 15 agosto 1947 allo scoccare della mezzanotte, nel momento in cui l’India proclamava l’indipendenza, Rushdie (nato il 19 giugno 1947) è stato «misteriosamente ammanettato alla storia».
Riprendendo in mano quel romanzo, il secondo di Rushdie, 1981, vincitore del Booker, «un mostro sformato» come lo descrisse lui stesso usando la famosa frase di Henry James, si rivede l’ambizione del giovane scrittore di raccontare cronologicamente, dettagliatamente, i principali eventi successi in India dal massacro di Amritsar del 1919 alla fine dello stato d’emergenza nel 1977. Da allora, Rushdie ha più volte confermato – smentendo i critici che parlavano più semplicemente, e banalmente, di «realismo magico», etichetta facile e polivalente – di avere scritto quel libro per indagare sui modi nei quali la memoria recupera e ricrea il passato. Victory City cerca di fare la stessa cosa: qui Rushdie non ha più sassolini politici da togliersi dalle scarpe – Indira Gandhi, la Vedova di I figli della mezzanotte, lo portò in tribunale costringendo l’editore a togliere una frase dalle successive edizioni – ma semplicemente ci mette davanti al fatto compiuto della brutalità della storia.
Tredici romanzi (incluso questo), una raccolta di racconti, due libri per bambini (uno per ciascuno dei suoi figli – «Dov’è il mio libro?», gli chiese asciutto il secondogenito, e papà si mise al lavoro), un’autobiografia, raccolte di saggi e recensioni e un piccolo semisconosciuto gioiello di mini-saggio sul Mago di Oz (la sua madeleine è la visione, a dieci anni, del Mago di Oz al cinema Metro di Bombay), Sir Salman Rushdie è lo scrittore delle Patrie immaginarie come da titolo della sua raccolta di saggi del decennio 1981-1991. Più dell’India dove è nato, del Regno Unito dove ha studiato e vissuto a lungo, dell’America che gli ha dato rifugio e passaporto, Rushdie è cittadino del mondo dei libri, e in ultima analisi Victory City è un omaggio alla loro potenza, e alla loro fragilità.
«La Lettura» ha letto Victory City appena ricevute le bozze; dopo un intervallo di tre settimane lo ha riletto, per cercare di separare – per quanto possibile – l’aggressione subita da Rushdie dalle pagine del libro che esce a pochi mesi di distanza. Ma è difficile, e probabilmente ingiusto, farlo davanti alle ultime parole del romanzo, con Pampa che finisce il suo poema, lo mette al sicuro e poi chiede alla dea, «Ho finito il racconto. Liberami». A quel punto il narratore-traduttore, Rushdie, si domanda cosa sia stato di quella bambina vissuta per due secoli e mezzo soltanto per raccontare la storia del regno che aveva creato con l’immaginazione. È stata semplicemente ridotta in polvere? O è stata condotta dalla dea «nei Campi dell’Eternità, dove non era più cieca, e l’eternità non era più una maledizione»?
«La vittoria appartiene alle parole», ha scritto Pampa nel suo poema. Perché sono più forti dell’ignoranza, della violenza, dell’avidità. E tocca agli scrittori consegnarci quelle parole.
«Imparai la prima lezione della mia vita: nessuno può affrontare il mondo tenendo continuamente gli occhi aperti», dice il protagonista de I figli della mezzanotte. Gli ha risposto Calasso in Ka: «Anche se gli dèi furono i primi a conquistare il cielo e da allora si nutrono di amrta, quel liquido che è il “non-mortale”, essi sapevano che un giorno, sia pure immensamente lontano, Morte li avrebbe raggiunti. Avevano il terrore di battere le palpebre, perché sapevano che tutto ciò che batte le palpebre muore».