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 2023  gennaio 15 Domenica calendario

Incontro con Florian Zeller

SANDRO VERONESI — La prima domanda che vorrei farle è questa: la famiglia, a partire dai grandi romanzi del XIX secolo, è sempre stata l’occasione per realizzare grandi capolavori: e lei, in questo secondo decennio del XXI secolo, continua a lavorare sulla famiglia come se ci fosse ancora qualcosa di nuovo da scoprire, e da raccontare. Perché?
FLORIAN ZELLER — Io credo che si scrivano libri o si facciano film principalmente per cogliere qualcosa del mondo che ci circonda e piazzare uno specchio davanti alla gente nel quale la gente possa guardarsi, perdersi e cercare di capirsi, e che le cose che si colgono sono sempre le stesse che però prendono forme differenti. E la famiglia, la forma della famiglia, è talmente cambiata, è talmente implosa ed esplosa da creare delle zone di frattura completamente nuove, dei nuovi luoghi di non-detto e di difficoltà, e la scrittura è lì proprio per esplorare quel che c’è di inedito in quelle sofferenze, in quei non-detti, e anche in quelle gioie.
SANDRO VERONESI — Faccio un paragone tra The Father e The Son, dato che ci sono dei punti in comune molto chiari: l’amore, ovviamente, ma anche l’abbandono, l’incapacità di accettare l’abbandono e la reclusione. Dunque le domando se lei considera la reclusione, l’abbandono e l’incapacità di accettare l’abbandono come degli standard, nelle famiglie, o delle eccezioni – da cui l’interesse che mostra per queste questioni.
FLORIAN ZELLER — No, io non penso che siano delle eccezioni. Penso anche che un altro punto in comune tra The Father e The Son è che sono entrambi due adattamenti cinematografici di pièce teatrali che avevo scritto in precedenza, il che significa che ho vissuto due volte l’esperienza di condividere queste storie con il pubblico. E in entrambe le volte sono rimasto colpito dalla stessa cosa, cioè la naturalezza con cui il pubblico si è impadronito di quelle emozioni: è successa la stessa cosa, la gente ci ha aspettato alla fine di ogni rappresentazione non per dirci «bravi» ma per parlarci della loro storia, per condividerla, per dirci che sapevano di cosa avevamo parlato. Lì mi sono reso conto che quelle questioni erano comuni, che molte persone condividevano le stesse difficoltà, le stesse paure, le stesse sofferenze, e che spesso quando si attraversano momenti così difficili come l’accompagnamento di qualche parente nella malattia o l’incapacità di comprendere cosa sta succedendo di così doloroso a un bambino, si ha l’impressione di essere soli. E la bellezza del teatro, secondo me, e del cinema, è ricordarci che non siamo soli e che si condivide un’esperienza comune a molti, l’esperienza umana, e che si è tutti sulla stessa barca e che è già una forma di consolazione attraverso l’esperienza artistica ricordarsi in quei momenti che non si è soli ad affrontare quelle prove. Dopodiché credo che quel che distingue veramente questi due progetti, The Father e The Son, sia la strategia narrativa: quella di The Father cerca veramente di mettere lo spettatore in una posizione singolare, molto soggettiva, come se si trovasse dentro al cervello di questo personaggio, sperimentando egli stesso, diciamo dall’interno, cosa significa perdere i punti di riferimento, cosa significa quella che chiamiamo «demenza senile». Qui, invece, in The Son, la decisione è stata di prendere un punto di vista diametralmente opposto, un punto di vista esterno, vale a dire il luogo dal quale non si riesce proprio a entrare nel cervello di colui che soffre.
SANDRO VERONESI — Ed ecco perciò che la sofferenza diventa incomprensibile.

FLORIAN ZELLER — Già. Ci sono le domande ma non ci sono le risposte. E c’è un desiderio di aiutare che risulta inefficace perché questo padre, questo eroe che non riesce a salvare il figlio, è una persona animata da molto amore, da molta buona volontà, ed è convinto, con queste armi, di poter risolvere il problema, e tuttavia trova qualcosa che gli resiste, e io volevo che la sua esperienza fosse condivisa da questo luogo di frustrazione e di incapacità di entrare nell’anima dell’altro, ed è per questo che ho scelto una forma narrativa più lineare. Di solito le mie pièce hanno forme piuttosto labirintiche perché sono le forme del mio modo di pensare e ho davvero dovuto fare uno sforzo per ottenere una narrazione lineare come un filo teso, come di solito sono le tragedie, vale a dire che ci si può dibattere quanto si vuole o guardare i personaggi dibattersi per impedire il compiersi del destino tragico ma non si riuscirà mai a farlo. Io tenevo a questa linearità, a questo punto di vista frustrante dovuto all’impossibilità di aiutare l’altro.
SANDRO VERONESI — Nel personaggio di Nicholas io trovo per la prima volta un personaggio che soffre di depressione, diciamo così (è un po’ più complicato ma siamo nel campo della depressione), e tiene un comportamento molto simile a un tossicodipendente, perché mente, mente sempre, e nasconde, sempre molto concentrato su sé stesso, mente e nasconde per difendere il proprio mistero e un comportamento che non vuole condividere con nessuno, e che non vuole nemmeno spiegare a nessuno. Cioè, sembra che lei parli della depressione come di una «dipendenza» ed è la prima volta che vedo la depressione rappresentata così e allora le domando se è stata una sua idea, quella di mescolare le due cose, o se si tratta di un parallelismo nel quale ci si imbatte studiando approfonditamente la questione.
FLORIAN ZELLER — È la prima volta che mi viene fatta questa domanda e sono contento che lei me l’abbia posta. Sì, quello che mi importava era avere un personaggio il cui comportamento potesse somigliare molto a quello di un drogato. Lei ha ragione, quella di cui soffre Nicholas può essere chiamata depressione, non c’è una parola più specifica per definirlo, anche se forse siamo oltre la depressione, ci troviamo in un territorio più propriamente psichiatrico, e c’è forse qualcosa che si mostra appena, sotto, una malattia, non si sa, ma di sicuro si tratta di qualcosa che a Nicholas stesso fa molta paura. È questa perdita di connessione con il reale che lo obbliga alla dissimulazione continua. E quando si vive nella dissimulazione, là troviamo la condotta tipica della dipendenza. Non che Nicholas sia dipendente dalla propria sofferenza, ma come se lo fosse è costretto a nascondere le ferite aperte, a dissimulare il proprio comportamento perché è inspiegabile, anche per lui stesso, e non può essere giustificato. È un ragazzo che marina ogni giorno la scuola perché è incapace di andare a scuola, ma è incapace anche di capire perché non può andarci, ed è proprio questa la peculiarità del suo disturbo, il fatto che nemmeno lui sappia cosa c’è che non va. Si può certo dire che deve avere vissuto un trauma eccetera eccetera, ma a volte una spiegazione non si trova, non c’è, e allora si cerca almeno una responsabilità, una colpa, e si comincia a percepire tutta la cosa come una specie di ingiustizia. Quando si vede la gente in grado di vivere facilmente e per noi invece tutto è difficile si prova un senso di ingiustizia, il quale reclama sempre un colpevole, ed ecco che il ragazzo concentra nel divorzio dei suoi genitori l’origine di tutte le sue sofferenze. Ma la mia intenzione di autore non era certo questa, cioè sostenere che un divorzio può generare un disturbo come quello, bensì mostrare come la vera spiegazione venga rifiutata, rimossa, e dunque rimanga misteriosa. Tutti vorrebbero avere delle risposte, che però rimangono inafferrabili. Come viene detto nel Fedro di Platone, il male viene sempre da più lontano, e io credo che questa sia la difficoltà insormontabile generata da certe malattie mentali. Ci sono persone che hanno tutte le ragioni per essere felici e non lo sono affatto, e soffrono, e qualunque sia il disturbo che le fa soffrire non si può certo fargliene una colpa, così come non si può accusare qualcuno di avere una malattia al rene. Ed è assai inappropriato anche solo dirgli «Andiamo, sforzati!», o «Guarda! Hai tutto per essere felice!», o «Datti una calmata»: sono espressioni e strumenti totalmente inappropriati in questo genere di disagio. Ed è un po’ così, brancolando in questa incomprensione, che procede il personaggio del padre, che cerca di utilizzare tutti gli strumenti di cui dispone per cercare di aiutare suo figlio, che però a mano a mano si rivelano tutti inutili perché non riesce a vedere quello che ha sotto gli occhi, e perché ci vuole tempo e molto coraggio per accettarlo, e spesso questo tempo e questo coraggio non ci sono – non abbastanza. Spesso è in questi momenti che si compie la tragedia, e per prevenirla bisognerebbe saperne di più, ed è per questo che ho voluto fare questo film, perché di solito questi temi sono accompagnati dall’ignoranza, dalla vergogna, dal senso di colpa, e dunque dalla negazione. Ciò che ho appena ricordato che accadeva alla fine di ogni replica, a teatro, quando la gente veniva a parlarci della propria esperienza mi ha convinto che questo film poteva avere come obiettivo sotterraneo quello di aprire un dialogo, un dibattito, su questi temi.
SANDRO VERONESI — C’è una cosa che Nicholas riesce a fare benissimo, con tutte le sue manipolazioni: riesce a isolare totalmente gli altri personaggi. Questo rende molto evidente la provenienza teatrale della rappresentazione perché anche nel film, come nella pièce, sono in scena solo i protagonisti e i coprotagonisti. Non ci sono i generici, non ci sono le comparse, che nel cinema tradizionalmente invece fanno parte della scena. Cioè non ci sono «gli altri», quelli che non sono direttamente riguardati dalla vicenda ma che di solito nei film ci sono perché ci sono nella realtà. Le chiedo se la mia lettura è corretta, cioè se lasciare anche nel film le caratteristiche della rappresentazione teatrale è funzionale a mostrare come il ragazzo riesca a isolare dal mondo gli altri personaggi.

FLORIAN ZELLER — Sì. Di nuovo, volevo mostrare che quando ci si trova a vivere questo genere di esperienze ci si ritrova come in una negazione del mondo esterno, perché poco alla volta il mondo esterno non viene più percepito, ed è come se cessasse di esistere. Il solo elemento veramente extraterritoriale, diciamo così, nel film, esterno al nucleo ristretto nel quale si compie la vicenda, è quello rappresentato dal nonno e dal suo ingombro, a Washington – ruolo che ho affidato ad Anthony Hopkins. Si tratta di un personaggio aggiunto che nella pièce non esisteva e al quale tengo molto, perché mi permette, con una scena sola, perentoria e brusca, di presentare sotto un’altra luce il ruolo di Peter, cioè del padre di Nicholas. Di colpo si capisce che il padre che si sforza di essere un buon padre, cioè di essere quel padre che lui non ha avuto, non è altro che un figlio pure lui, e che c’è qualcosa diciamo così di ereditario nel subire, prima, e poi generare il trauma. Questo è molto importante perché in realtà per me è proprio Peter il figlio, The Son. Un personaggio talmente alle prese con il proprio passato di figlio e con la necessità di regolare i conti con il proprio padre che non arriva a comprendere la propria impotenza, il che lo porta a compiere un errore irreparabile. È una cosa fondamentale che volevo raccontare, questa difficoltà a trovare le risposte per un genitore, la terribile difficoltà di essere un buon padre o una buona madre a prescindere dalle intenzioni, e l’importanza di saper accettare la propria impotenza. Accettare il fatto di non poter sapere, di essere tagliato fuori, di non avere le risposte necessarie per salvare il proprio figlio. È questo che fa di lui un personaggio tragico, che da incolpevole diventa colpevole.
SANDRO VERONESI — Lei ha cominciato molto giovane prima con i romanzi e poi con il teatro, dove ha conosciuto subito il successo. Ma il teatro non è esattamente la disciplina più frequentata dai giovani. Perché ha scelto il teatro e non direttamente il cinema?
FLORIAN ZELLER — In effetti il teatro è un’esperienza molto importante, per me. Lo è stata e lo è ancora. Ho una passione particolare per quest’arte, ho una passione sincera per gli attori, per il mistero della rappresentazione, dello spettacolo vivente. E la passione viene dalla mia esperienza di spettatore, casuale, al principio, e anche abbastanza in ritardo, nel senso che non ero mai stato portato a teatro quando ero piccolo.
SANDRO VERONESI — Non ha fatto studi specifici?
FLORIAN ZELLER — Di teatro? No. Ma trovo che ci sia un mistero inesauribile nella rappresentazione teatrale e ho passato gli ultimi anni ad andare a teatro quasi tutte le sere, per vivere questa vibrazione tutta particolare di trovarmi in una sala e di condividere con gli altri un momento assolutamente privilegiato. È qualcosa che mi ha nutrito molto, e che ho amato enormemente. Evidentemente il cinema è molto diverso, ma c’è per me una continuità, che è rappresentata dal fatto di raccontare delle storie per il tramite degli attori, e gli attori sono sempre per me il punto di partenza della mia ispirazione. Per The Father sono stato veramente animato dall’idea di lavorare con Anthony Hopkins. E per The Son il desiderio di fare il film si è consolidato dopo l’incontro con Hugh Jackman. È successo tutto in maniera molto singolare: avevo appena cominciato a fantasticare sull’idea di fare il film ed è stato lui a scrivermi una lettera per dirmi che aveva sentito dire che stavo cominciando a lavorare all’adattamento di questa pièce, che lui conosceva: «Se stai già lavorando con altri attori», c’era scritto, «dimentica questa mia lettera, ma se mai così non fosse mi piacerebbe molto avere a disposizione dieci minuti per spiegarti perché sono io che devo fare il ruolo di Peter». Io sono stato toccato dalla sua umiltà, dalla sua sincerità e dalla sua onestà, e ci siamo visti via Zoom. Non avevo certo l’intenzione di prendere la mia decisione sul momento ma alla fine dei dieci minuti gli ho proposto la parte perché avevo sentito in lui qualcosa di profondo – una specie di, come posso dire, disponibilità ad andare a esplorare qualcosa di sé che, senza nemmeno il bisogno di stabilire cosa fosse, era strettamente collegato con questa storia. Quello che mi interessa, infatti, quando si parla di prova d’attore – e qui magari mi allontano un po’ dal teatro – è il tentativo di non fabbricare, di non produrre una performance o una dimostrazione di talento, bensì di sapersi connettere a un luogo e a un momento di verità. Questo mi sembra sempre un cammino appassionante. E in quei dieci minuti, via Zoom, ho sentito in lui questa disponibilità, questo coraggio, ed è stato bellissimo perché è una sensazione che mi ha seguito per tutta la lavorazione del film. Ho cercato in tutti i modi di non fare ciò che d’abitudine faccio a teatro, cioè provare, provare, ripetere; anche lui viene dal teatro, e gli ho proposto di non farne proprio, di prove, dato che si stava parlando di un uomo che perde il controllo della situazione, che parte pensando di poter risolvere il problema, e invece scopre di non poterlo fare. Lui è un attore molto professionale, e perciò ha il culto del controllo, ma il mio desiderio era di metterlo in una situazione molto scomoda nella quale non avrebbe potuto padroneggiare nulla, per cui niente prove. Lo volevo in un posto dove poteva essere lui stesso invaso da emozioni che sentivo essere all’origine del suo desiderio di interpretare il ruolo di Peter, e che avrebbe potuto far emergere sullo schermo.

SANDRO VERONESI — Ha già parzialmente risposto alla mia prossima domanda: la lingua. Perché l’originale, cioè la pièce teatrale, lei la scrive in francese, ma i film, sia The Father sia The Son, li ha scritti direttamente in inglese – insieme a un grande sceneggiatore come Christopher Hampton? Una parte della risposta dunque può essere che gli attori, prima Hopkins e poi Jackman, parlano inglese...
FLORIAN ZELLER — Sì, ma in effetti non è l’unica risposta. C’è anche il piacere di lavorare in un ambiente in cui anche io stesso mi sento scomodo, e dunque posso essere invaso da quelle stesse emozioni.
SANDRO VERONESI — È più o meno la risposta che dava Samuel Beckett quando gli si chiedeva perché mai lui, irlandese, avesse scelto di scrivere in francese: «Sento il bisogno di essere male attrezzato»...
FLORIAN ZELLER — Sì. E io lo sento molto forte, questo bisogno. In un primo momento ero molto intimidito nel dirigere Anthony Hopkins in una lingua che non era la mia. Ma andando avanti l’ho trovata un’opportunità molto interessante, intanto di fare un viaggio nell’ignoto, e poi di trovare una precisione maggiore nei miei pensieri, dato che non potevo contare sulla lingua per esprimerli completamente. Era necessario che fossi tanto più preciso nel dire quello che volevo quanto meno poteva aiutarmi a farlo la lingua inglese – nella quale, sì, ero male attrezzato. Ero obbligato a trovare quella precisione nei miei pensieri, quell’onestà. E questo mi piaceva moltissimo.