il Giornale, 13 gennaio 2023
I film che dipingono un futuro nero
Tra pandemie, catastrofi ecologiche, minacce nucleari, migrazioni transcontinentali, Se continua così... Che è il titolo di un saggio, documentatissimo, di Mauro Gervasini sottotitolo: «Cinema e fantascienza distopica» (Mimesis) che racconta come alcuni grandi film, quasi sempre di derivazione letteraria, spesso d’autore, altrettanto spesso di puro genere, siano riusciti a trasformare in un immaginario condiviso e globalizzato la visione di un futuro peggiore del presente, dal muto Metropolis di Fritz Lang, anno espressionista 1927, così futuristico, a partire dall’idea di città verticale, da costituire il modello di tanto cinema di fantascienza moderno, fino alle saghe di Mad Max e Matrix. Il plot è sempre lo stesso: come ti illudo di rendere il mondo di domani migliore di com’è oggi, anzi di più, il migliore dei mondi possibili. Lo svolgimento varia a piacere, a volte con inquietanti (pre)visioni. Esempio: «Tutti i mammiferi di questo pianeta d’istinto sviluppano un naturale equilibrio con l’ambiente circostante, cosa che voi umani non fate. Vi insediate in una zona e vi moltiplicate, vi moltiplicate finché ogni risorsa naturale non si esaurisce. E l’unico modo in cui sapete sopravvivere è quello di spostarvi in un’altra zona ricca. C’è un altro organismo su questo pianeta che adotta lo stesso comportamento, e sai qual è? Il virus. Gli esseri umani sono un’infezione estesa, un cancro per il pianeta: siete una piaga. E noi siamo la cura». Anno del primo Matrix, spazio-tempo 1999.
Distopia (o anche anti-utopia, contro-utopia, utopia negativa), ossia: rappresentazione di una realtà immaginaria del futuro, ma prevedibile sulla base di tendenze del presente, dove si immaginano assetti politico-sociali e tecnologici totalitari o barbarici e un’esistenza spaventosa. Tra gli orrori prossimi venturi: The Village (2004) scritto e diretto da M. Night Shyamalan, dove gli «anziani» (miliardari) segregano i giovani per proteggerli dalle insidie della contemporaneità; The Circle (2017) di James Ponsoldt dal romanzo di Dave Eggers, ambientato in un mondo dominato da un unico totalizzante social media; o il nostro Mondocane (2021) di Alessandro Celli ambientato in una Taranto militarizzata e post-orwelliana.
Leggere il mondo attraverso il cinema (o la letteratura) è un’operazione sempre utile: ci aiuta a capire per tempo i meccanismi, e le relative distorsioni, che governano le società in cui viviamo, e ci avverte dei pericoli. Ma perché, ora, farlo proprio attraverso il cinema distopico? Lo spiega nella prefazione Gianni Canova: «Ci sono state epoche recenti che hanno raccontato se stesse con il crime e con il gangster movie, epoche e decenni che hanno parlato di sé soprattutto con la science fiction, altre che hanno trovato il loro linguaggio più consono nel war movie o nella spensieratezza della commedia. Il nostro, invece, è il tempo della distopia. Perfino in un contesto poco abituato a frequentare i generi come quello italiano, la distopia si afferma come la narrazione veramente capace più di qualsiasi altra di cogliere e dar forma allo spirito del tempo, alle sue ansie e ai suoi timori, ai suoi fantasmi e alle nostre paure».
E Mauro Gervasini, critico cinematografico, firma storica del settimanale FilmTv e selezionatore della Mostra cinematografica di Venezia, è bravissimo a raccontarci il tempo della distopia come un lungo, angosciante, spettacolare film, lungo 140 pagine, quattro capitoli e un centinaio di opere citate, da Akira a War Games. I prequel ovviamente sono il classico assoluto Fahrenheit 451 di François Truffaut, 1966, e Orwell 1984 diretto nel 1984 da Michael Radford, e gli spin off tanti film cyberpunk e diverse serie tv (sui cui però si è deciso di non soffermarsi). In mezzo, un viaggio nel tempo in cui la distopia può essere sì nel futuro (la maggior parte, ed è persino magari un futuro pacificato, in cui il potere repressivo ha già eliminato ogni devianza, come in V per vendetta di James McTeigue, 2005; a proposito la frase culto «La sicurezza ha un prezzo, e si chiama libertà», vi ricorda qualcosa?) ma anche nel presente (nella saga La notte del giudizio siamo proprio nel 2022 e dintorni, mentre nello straordinario I figli degli uomini di Alfonso Cuarón l’anno in cui non nascono più bambini è dietro l’angolo, il 2027), o addirittura ormai nel nostro passato, come 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter.
Crisi economiche, olocausti nucleari (il postatomico che sulla scia di The Day After arriva a L’esercito delle dodici scimmie, 1995, fino alla saga australiana di Mad Max), cataclismi ecologici e demografici (da Snowpiercer a Interstellar), strapotere di oligarchie politico-finanziarie (In Time, scritto e diretto da Andrew Niccol, 2011, dove mai come in questo caso il tempo è denaro), pandemie (la lista è lunga: 28 giorni dopo, Contagion, Il tempo dei lupi di Michael Haneke, 2003, ma anche la serie tv italiana di Niccolò Ammaniti Anna...), strapotere delle macchine (dalla assuefazione virtuale di Strange Days, 1995, a Matrix naturalmente, ma anche a Her, 2013, fino a Mother/Android di Mattson Tomlin, 2021). Il cinema ci indica tutti i peggiori futuri possibili. E voi, quale scegliete?
Poi può accadere che distopia, (fanta)Storia, cronaca e profezia si incontrino. Accade in Atlantis, scritto e diretto dal regista ucraino Valentyn Vasjanovyc, acclamato alla Mostra del cinema di Venezia nel 2019. Storia di un reduce della guerra del Donbass, appena conclusa, che dopo la chiusura della fonderia gestita da una multinazionale in cui lavora (annunciata attraverso un portavoce che appare su uno schermo sospeso come il Big Brother di 1984) sceglie di tornare nella zona del conflitto, una devastata terra di nessuno, per unirsi a un gruppo di volontari che recupera i cadaveri seppelliti nelle fosse comuni, tra mine inesplose e rimasugli di un orrore inestinguibile. Ma forse c’è anche uno spiraglio di vita... Il film, girato nei dintorni di Mariupol, la più martoriata città dell’Ucraina dell’est dopo l’attacco russo del febbraio 2022, è stato girato nel 2018; il conflitto definito a «bassa intensità» nel Donbass è iniziato nel 2014; il regista lo immagina terminato nel 2025 con strascichi tremendi nei corpi e nella psiche di donne e uomini, ma anche nell’ecosistema avvelenato. Intanto una guerra nel cuore dell’Europa è ancora in corso. E non è cinema.