il Fatto Quotidiano, 13 gennaio 2023
Il processo di Carrère non è un granché
Nel 2022, l’anno della distopia di Michel Houellebecq (Sottomissione), l’Isis in Medio Oriente e il terrorismo in Europa sembravano più deboli, ma la scena politica francese – tolto il premier Macron – era dominata da due xenofobi e da un “islamo-gauchiste”, e il jet-set internazionale dal Mondiale dei petrodollari qatarini.
Il 2022 è stato anche l’anno del processo per le stragi jihadiste del Venerdì 13 novembre 2015 a Parigi, avviato nel settembre 2021. Nel libro V13 (fresco di stampa in Francia con le edizioni P.O.L., mentre in Italia arriverà il 14 marzo con Adelphi, ndr) lo scrittore Emmanuel Carrère, che ne ha seguito per un anno tutte le udienze, ha raccolto, rivisto e rimpolpato i reportage già apparsi sull’Obs (in Italia, su Repubblica): dall’autore di Limonov e soprattutto dell’Avversario ci si poteva attendere un’indagine “chirurgica” ed empatica rivolta alla personalità degli imputati, a partire dall’unico sopravvissuto del commando jihadista, l’ineffabile Salah Abdeslam. In realtà il processo, dominato dalle strazianti ricostruzioni delle violenze di quella sera e dalle conclamate deficienze dei Servizi segreti francesi e anzitutto belgi (imbarazzanti le loro deposizioni), è stato da vari punti di vista deludente: Abdeslam ha parlato di sé e degli attentati in modo discontinuo, insincero, contraddittorio; gli scavi su Molenbeek e sul retroterra ideologico e criminale degli imputati hanno pescato in acque poco profonde; sul piano degli eventi è emerso poco di più rispetto a quanto avevano già chiarito le indagini, salvo la riscoperta dell’eroismo del comandante C., colui che – violando gli ordini ricevuti – entra subito nel Bataclan e mette fine alla mattanza colpendo il terrorista che poi si fa esplodere (gli altri due saranno eliminati due ore dopo da una non meno eroica irruzione delle teste di cuoio).
Forse anche per questo Carrère ha privilegiato alcune figure di vittime o di parenti (anzitutto due che hanno perso una figlia: la franco-egiziana Nadia Mondeguer e Georges Salines, che credendo nella giustizia riparativa, ha scritto un libro col padre di un attentatore), o alcune figure quasi grottesche di imputati minori trovatisi al posto sbagliato al momento sbagliato.
Più di tutto, il libro insiste sulla caratura collettiva di un processo agito da avvocati e pubblici ministeri di prim’ordine, attento a bilanciare i diritti di tutti, teso a lenire razionalmente ferite indicibili. Eppure, dietro la patina dolente e pacificante, si aprono squarci su gravi questioni irrisolte. Perché Abdelhamid Abaaoud – la mente degli attentati, la cui presenza in aula avrebbe cambiato tutto il volto del processo – non fu preso, vivo, a Aubervilliers subito dopo la “soffiata” dell’eroica Sonia (amica fedifraga di sua cugina: ora vive protetta sotto altro nome), ma si attese di braccarlo nell’appartamento di Saint-Denis dove si sarebbe fatto esplodere? Perché gli attentatori scelsero i dehors proprio di quei bar e non di altri (passando di lì pochi giorni dopo, vidi le bandiere della Cabilia tra i lumini, e si capiva che quei bar scontavano il fatto di appartenere ad Algerini o Marocchini occidentalizzati, ben integrati tra i kouffars)? Perché alla fine si affibbia l’ergastolo ostativo ad Abdeslam, il quale, nonostante evidenti complicità e una condotta processuale deplorevole, non ha sparato un colpo ma ha il torto di essere l’unico rimasto in vita? Si può liquidare con una scrollata di spalle l’argomento difensivo che Carrère paragona a quelli usati da Jacques Vergès nel celebre processo del 1987 contro il nazista Klaus Barbie – che cioè gli attentati siano stati una risposta ai massacri di civili a seguito delle bombe lanciate da Hollande e dalla coalizione su Iraq e Siria a partire dal 2014?
Con la vividezza di splendidi disegni e ritratti, i due hors-série dedicati al processo da Charlie Hebdo (non perdeteli!) pongono lo stesso dilemma dell’avvincente cronaca giudiziaria di Carrère: da una parte stiamo noi, “tranquilli democratici, gente perbene su cui il V13 agisce come un potente motore di senso della comunità, del legame, dell’identificazione”; dall’altra (fisicamente: nella gabbia, nei quartieri, in Siria) stanno loro, “che non ci somigliano, che non conosciamo, che non comprendiamo”.
Nell’assenza delle figure-chiave, nel silenzio dei reduci, nel balbettio delle loro famiglie, nella fluidità dei moventi, la messa laica di questo processo (e di questo libro) è servita a elaborare un lutto collettivo, molto meno a lavorare sulla radice del male.