la Repubblica, 13 gennaio 2023
L’ultimo Cristo di Scorsese
Gesù contiene moltitudini. È costante. È presente nei nostri sforzi quando sentiamo l’impulso di agire mossi dall’amore, anche se non ci riusciamo. È presente in ogni vaga avvisaglia di amore. Non l’amore per una cosa o una persona specifiche, l’amore come una fonte di potere». Non è un santo, a parlare in questi termini, né un prelato o un teologo, ma Martin Scorsese. Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà Cattolica, ha condiviso con lui il suo ultimo libro e, in particolare, la prefazione che papa Francesco ha scritto per il volume, ricevendo in risposta la sceneggiatura, preceduta da queste parole: «Sono rimasto profondamente toccato dall’introduzione di Sua Santità a Una trama divina e il suo appello dagli artisti mi ha scosso nel profondo. Volevo dare una risposta e ho deciso di farlo in questa forma». Scorsese esalta la “presenza” e la “costanza” di Gesù, ed è illuminante l’incipit, tratto da Canto di me stesso di Walt Whitman, che continua così: «mi concentro su chi è vicino, aspetto sulla soglia della porta». Nel finale diThe Irishman, il protagonista è travolto dal rimorso e sente l’impulso di parlare con un prete, ma non riesce ad aprirsi fino in fondo: sembra un ennesimo fallimento morale, tuttavia chiede al sacerdote di «lasciare aperta la porta». Nel suo cinema è costante la riflessione sulla grazia, e in un itinerario simile a una via Crucis il percorso artistico va di pari passo con quello esistenziale: senza crocefissione non c’è resurrezione, elemento per lui imprescindibile insieme «all’idea di incarnazione e al potente messaggio di compassione e amore». Non si può dimenticare che ha studiato un anno in seminario e sono illuminanti le affermazioni tratte dai dialoghi con lo stesso Spadaro apparsi sulla sua rivista, in cui ricorda che sullo stipite della porta di Jung era scritto «chiamato o non chiamato Dio sarà presente» e poi riflette su Gesù che non porta la pace, ma una spada: «rimani sorpreso, vedi realmente qualcuno, riconosci la sua umanità… lì è la spada di Gesù, che recide ogni legame con le abitudini, gli alibi, i comportamenti inespressi che ci tengono a distanza di cortesia l’uno dall’altro… e va dritta al cuore dell’amore». Nei suoi film i temi spirituali sono evidenti solo a volte, come in Silence, dove ha truccato Andrew Garfield pensando a El Greco, che immortala «un’immagine più compassionevole di quello di Piero della Francesca», ma spesso sono da leggere in filigrana: latrama divina consente a Jake La Motta di avere pietà di se stesso, ed è presente inMean Streets, Taxi Driver e persino in Casinò,come è lo stesso Scorsese a indicare nella sceneggiatura, ma si potrebbe citareKundun e ovviamente L’ultima tentazione di Cristo.Ripensando al versetto del Vangelo posto alla fine diToro Scatenato, «se sia peccatore, non lo so; ma una cosa so, che prima ero cieco e ora ci vedo» è emblematico il progetto di un film su «Jacques Lusseyran, il leader cieco della resistenza francese, che venne mandato a Buchenwald e tenne vivo lo spirito della resistenza tra i suoi compagni prigionieri». Oltre a Spadaro sono molti gli uomini di chiesa con cui ha intessuto un dialogo: il gesuita James Martin, che compare in alcuni film, il frate domenicano Boniface Ramsey, l’arcivescovo episcopaliano Paul Moore e forse più di ogni altro padre Principe: «da lui ho imparato tantissimo, e tra l’altro la pietà con se stessi econ gli altri». Sono punti di riferimento complementari ai grandi scrittori che hanno lasciato un segno indelebile nella sua formazione: oltre a Bernanos, conosciuto attraverso Bresson, è il caso di Tolstoj, in particolare per Padre Sergio, Rudyard Kipling, di cui ammira Loro,Dostoevskj, del quale ha parlato a lungo con papa Francesco, e Flannery O’Connor, per la ricerca della «grazia nel territorio del diavolo». Riflettendo sul personaggio di Kichijiro in Silence, afferma qualcosa che sembra uscito dalle sue pagine:«Capita di trovarsi sul percorso una persona che ci ripugna: è Gesù». Più articolato il rapporto con i maestri del cinema, a cominciare da Pasolini, autore del «più bel film mai realizzato su Gesù». Insieme a Rossellini, del quale predilige Paisà, Francesco giullare di Dio ed Europa 51,in cui «si confrontava con la questione dell’essere un santo nel mondo moderno», e, Dreyer del quale scrive aproposito di Ordet, «non posso riguardarlo. È così puro, così bello, così sconvolgente», ci sono titoli meno evidentemente spirituali comeLa donna che visse due volte di Hitchcock, Sentieri selvaggi di Ford e I gangsters di Siodmak. Rivelatorio l’amore per 8e½ di Fellini, in cui il tormento del regista in crisi è anche il suo, come lo sgomento di fronte a quanto afferma il cardinale «chi le ha detto che veniamo al mondo per essere felici?». Non si può certamente prescindere dal finale in cui il regista immagina di impiccare il critico rigettando l’intellettualismo cinefilo, si inginocchia di fronte al prelato e scopre con commozione che «è una festa, la vita». Sia nelle opere che realizza che nell’arte che ama, Scorsese ricerca la trama divina e fa sue le parole di Gilead di Marilynne Robison «non c’è nulla di più straordinario di un viso umano. (…) Ogni volto umano esige qualcosa da te, perché non puoi fare a meno di capire la sua unicità, il suo coraggio e la sua solitudine».
Riflettendo sull’opera della scrittrice afferma: «L’idea che qualsiasi cosa possa trovare spiegazione scientifica non mi sembra tanto ridicola quanto, invece, molto ingenua. Quando rivolgiamo la mente a considerare il mistero grande, stupefacente, del nostro mero esserci, del vivere e morire, l’idea stessa che si possa venire a capo di tutto per mezzo della scienza sembra inconsistente. (…) E ciò che lei chiama “mente e anima” è, secondo me, vero e proprio cattolicesimo. Mente e anima è davvero tutto ciò che facciamo: il bene che facciamo e il male che arrechiamo. È il provarci, con gli altri in generale e con le persone che amiamo in particolare. E la mia particolare sfida è consistita nel cercare di andare oltre l’assorbimento nel mio lavoro, il mio auto-assorbimento, per essere presente per le persone che amo». La negazione dell’io è un altro tema centrale del suo percorso artistico ed esistenziale, a cominciare da Mean Streets, dove «Charlie deve prevalere sul suo orgoglio. Capisce che la spiritualità e la pratica non si limitano all’edificio della chiesa in senso letterale, che deve uscire fuori per la strada». Dopo aver provato ansia e angoscia, racconta di aver vissuto il periodo del lockdown come un momento di grazia, per l’opportunità di concentrarsi sugli aspetti essenziali della vita e sulla gratitudine per le “benedizioni ricevute.” In quell’occasione si è chiesto «potrò mai stare da solo in una stanza, da solo con me stesso? Potrò mai soltanto essere?». E poi: «cosa vuole Cristo da noi?».