Corriere della Sera, 13 gennaio 2023
L’inferno spiegato da Enrico Malato
Nella sua Conversazione su Dante, il poeta russo Osip Mandel’štam, che pure volle esprimere la sua ammirazione e la sua gratitudine all’Alighieri, non taceva affatto lo sforzo immane nel cercare di cogliere i valori poetici e filosofici della Commedia: «Leggere Dante – scrisse – è soprattutto una fatica interminabile, in cui ogni successo ci allontana ancor di più dalla meta. Se la prima lettura dà soltanto il fiato corto e una sana stanchezza, per quelle successive bisogna provvedersi d’indistruttibili scarponi ferrati».
In effetti, commentare la Divina Commedia è un’impresa che ha qualcosa di temerario, tali e tante sono le interpretazioni del poema che si sono stratificate nei secoli. A cominciare dai primi anni dopo la morte di Dante, se già nel 1337 il numero dei commenti si aggirava tra sette e otto. La Necod, ovvero la Nuova Edizione commentata delle Opere di Dante, concepita come omaggio per il settecentesimo della morte del poeta (1321-2021), si propone di sostituire, dopo un secolo, l’Edizione del Centenario che nel 1921 fu coordinata da Michele Barbi configurandosi, nel bene e nel male, come il testo di riferimento delle opere dantesche. L’Inferno, a cura di Enrico Malato, è il nuovo volume, il VI della Necod, che esce oggi per Salerno, in vista delle altre due cantiche che seguiranno. Come spiega nella Premessa il curatore, grande regista di tutta l’impresa, il progetto, concepito nella metà degli anni Novanta del secolo scorso, si riprometteva una ricostruzione rigorosa della lettera dei testi e il «massimo impegno nella illuminazione esegetica». Si trattava di evitare il taglio rapido della chiosa scolastica e però anche di aggirare il linguaggio tecnico e a volte criptico dell’approccio specialistico, sviluppando un discorso interpretativo in modo chiaro e realmente utile alla comprensione delle singole opere. Su queste basi, sono state proposte fino a oggi tutte le opere cosiddette «minori», dalla Vita nuova alle Rime, dal De vulgari eloquentia alla Monarchia, dalle Epistole ed Egloghe ai testi di dubbia attribuzione come Il Fiore e il Detto d’Amore. Dopo l’uscita dell’Inferno, restano da editare le altre due cantiche e il Convivio, cui si aggiungeranno altri volumi collaterali (compreso un Dizionario della Commedia).
Dunque, un grandioso progetto che culmina nel commento del poema. Sul piano strettamente filologico, preso atto della disastrosa perdita di tutti gli autografi e considerate le difficoltà oggettive che rendono complicato stabilire un’edizione critica (nonostante le varie proposte più o meno recenti, fino alla ferrarese di Paolo Trovato e a quella della Società Dantesca a cura di Giorgio Inglese), Malato ha privilegiato il testo-base più classico, definito da Giorgio Petrocchi tra il 1966 e il ’68 «secondo l’antica vulgata», cioè fondato sui primi manoscritti (i codici prodotti fino al 1355) nel totale di quasi ottocento. Malato si è però imposto di rivedere quell’edizione nella grafia e nella punteggiatura e di correggerla laddove lo ritenesse necessario secondo criteri interpretativi ad hoc, passo per passo. In questi casi, le due direttrici sono in genere quelle più praticate dalla cosiddetta interpretatio allorché si tratta di risolvere dei dubbi: la lectio difficilior (la variante più difficile verosimilmente anche la più attendibile in quanto semplificata da copisti superficiali o distratti) e, importantissimo, l’usus scribendi dantesco, cioè il confronto sistematico con passi similari ricorrenti in Dante, che per coerenza danno sostegno all’una o all’altra scelta.
Il commento, inteso in chiave di «accompagnamento» al lettore (al lettore còlto), è sostenuto da una parafrasi sistematica del testo con approfondimenti successivi in varie direzioni: a. sui personaggi, sui riferimenti storici, sui messaggi allegorici, didascalici, morali, ideologici che si celano nella narrazione; b. sulle fonti e sui richiami interni a distanza nel poema e non solo; c. sui tratti linguistici peculiari, sulle particolarità stilistiche e retoriche adottate da Dante. Dunque, l’ambizione è quella di offrire un’esegesi analitica ed esaustiva che naturalmente tiene conto delle acquisizioni critiche più accreditate e tuttavia stabilendo una inevitabile selezione preliminare della sterminata bibliografica precedente, pena l’immobilismo da asfissia. L’impatto per l’occhio è impressionante per la proporzione necessariamente asimmetrica tra il testo (la terzina, o poco più, in alto nella pagina) e la fitta annotazione al piede, che occupa la massima parte della pagina e che va letta come un avvincente «racconto» appunto di accompagnamento in cui confluisce la gran mole di ragioni critiche, storiche, filosofiche, linguistiche eccetera.
Ciascuno dei 34 canti dell’Inferno viene preceduto da una pagina intitolata Percorso narrativo, una sorta di guida preparatoria alla lettura in cui si succedono in forma riassuntiva le sequenze che scandiscono il canto. A questo «percorso» fanno seguito le Note cronologiche e contestuali (Malato sposa la tesi che vuole l’inizio del viaggio non il 25 marzo ma nella notte tra il 7 e l’8 aprile 1300) e una preziosa bibliografia essenziale ordinata cronologicamente. Ciascun canto si chiude con una Nota di lettura, luogo di riepilogo e di collegamento con i canti precedenti e con quello che segue in modo da non perdere di vista la continuità straordinaria nel macrotesto generale.
Detto dell’impianto strutturale che, come si sarà capito, garantisce livelli plurimi di lettura (da quello rigorosamente specialistico a quello meno esigente sul piano scientifico), resta da accennare a qualche passo significativo, tra i mille possibili, su cui l’argomentazione di Malato, che ha sempre il pregio della chiarezza, si profonde in analisi particolari, discute soluzioni molteplici, collega il prima e il dopo o apre nuove prospettive esegetiche, conducendoci per mano lungo le catene montuose e i «sentieri da capra» del poema.
Prendiamo il caso molto interessante in cui si passano in rassegna le sfumature semantiche della parola «talento», che non si esauriscono in una serie di variazioni in sé conchiuse ma implicano un coerente sviluppo interno del testo e del pensiero. Il sostantivo era già presente, con il significato di «disposizione d’animo», in un celebre sonetto giovanile in cui Dante, rivolgendosi all’amico Guido Cavalcanti, formulava un auspicio di condivisione, che poi nella risposta dell’interlocutore sarebbe stato respinto. La sua riproposizione nel canto X non è casuale, giacché si tratta del canto degli eretici, in cui Dante, trovandosi al cospetto di Cavalcante, il padre di Guido, intravede nel suo volto una inquieta curiosità che interpreta utilizzando lo stesso sostantivo: «D’intorno mi guardò, come talento / avesse di veder s’altri era meco…». Quell’«altri» che Cavalcante spera ansiosamente e vanamente di vedere con Dante è, come noto, il figlio Guido: qui «talento» assume la connotazione più sottile e malinconica di «desiderio venato di timore e angoscia».
Sui rapporti divenuti conflittuali con il grande amico della giovinezza, lo stesso Malato ha offerto a suo tempo un saggio che ne metteva a fuoco le ragioni nella opposta visione dell’amore (mezzo che conduce alla sfera divina per Dante, passione travolgente per Guido). Ora, nella Commedia, ogni occasione è buona per ribadire sottotraccia (Cavalcanti viene citato rapidamente solo due volte) quel dissidio personale attraverso una fitta trama di allusioni e riferimenti lessicali. Già nel canto dei lussuriosi Paolo e Francesca, dove si condannano tra l’altro le teorie amorose del filosofo Andrea Cappellano sostenute da Cavalcanti, fa capolino ancora il sostantivo-spia nel rimprovero ai «peccator carnali / che la ragion sommettono al talento», in una terza accezione decisamente più spinta verso il desiderio erotico. E ancora: nel XXI del Purgatorio, ritroveremo la stessa parola in relazione al poeta latino Stazio che, completata l’espiazione, si accinge a raggiungere l’Empireo. Il «talento» diventa così desiderio di purificazione, o meglio «freno imposto dalla volontà di Dio al godimento di una beatitudine non ancora guadagnata».
Malato non trascura nessuna di queste sottili variazioni semantiche che alludono agli inesausti e inquieti movimenti sentimentali o ideologici di Dante (si veda anche la molteplicità insita in un termine apparentemente banale come «mondo»). Oggi si chiamerebbero link i continui rimandi più o meno occulti che tramano la Commedia e che Malato puntualmente va a scovare e ad aprire. Sempre restando a Cavalcanti, vera ossessione di Dante almeno fino al XV dell’Inferno: lo ritroviamo appunto nel commento al canto di Brunetto Latini, l’amato maestro del giovane Alighieri, cui il poeta pellegrino nell’aldilà rende omaggio pur collocandolo ignominiosamente (per quel tempo) tra i sodomiti: collocazione così imbarazzante per la critica, divisa tra chi dà alla colpa un valore metaforico e chi invece le attribuisce un senso letterale biografico. Malato sottolinea come quella presenza sia finalizzata essenzialmente all’esaltazione dell’allievo. In realtà un’autoapologia (è pur sempre l’autore a mettere in bocca al suo maestro quella lode) che implica la definitiva liquidazione dell’ex amico Guido. In qualche modo il peccato di Brunetto finirebbe dunque per essere un pretesto puramente letterario utile allo scopo personale del poeta oltre che politico, visto che dalle labbra di ser Brunetto uscirà anche una celebre invettiva contro i fiorentini.
Il poderoso commento di Malato ci invita a riflettere a ogni passo sulla questione capitale della formidabile e misteriosa memoria dantesca, che è, nelle sue molteplici manifestazioni, non solo il motore dell’intreccio narrativo ma la filigrana che innerva il tessuto profondo della creazione poetica. L’alimento di quella «singolare orchestra chimica» di cui parlava Mandel’štam a proposito della Commedia.