Corriere della Sera, 13 gennaio 2023
Intervista a Lea Pericoli
Macché numeri (27 titoli italiani tra singolare, doppio e misto), che banalità. Lea Pericoli è, da sempre, una questione di stile. «Non ho vinto tanto, a tennis. Però ero tignosa. E certe cose nessun’altra ha avuto il coraggio di farle». Di indossarle, soprattutto: piume di struzzo, brillantini, taffetà e pizzo a Wimbledon, il tempio della tradizione, lampi di luce bionda quando il bianco era il colore dominante e Nicola Pietrangeli il maschio alfa. Natali a Milano ottanta e spiccioli anni fa (portati con classe infinita e raccontati con timbro ancora flautato), infanzia ad Addis Abeba dove il padre Filippo Pericoli, imprenditore, trasferisce la famiglia dopo la guerra d’Etiopia, adolescenza in Kenya. Sospira forte, la Lea: «Dal mal d’Africa non si guarisce mai...». Ecco, cominciamo da qui.
Un ricordo, su tutti.
«Uno solo? Impossibile. Ce li ho tutti conservati nel cuore. Era un’altra Africa, seconda metà degli anni 30, niente a che vedere con i safari e i torpedoni dei turisti. Avevo due anni. Papà è stato il primo civile a entrare a Addis Abeba: aprì una ditta di importazioni, diventammo ricchi ma scoppiò la guerra, arrivarono gli inglesi e lo fecero prigioniero. Doveva finire in India però ai tempi delle stragi di Graziani aveva salvato tante persone, tra cui il cameriere personale dell’Imperatore. E il Negus lo graziò».
Il tennis, in questa storia, come entra?
«Loreto Convent, a Nairobi: la più grande fortuna della mia vita. Dieci cattivissime suore irlandesi che tenevano a bada 300 bambine scatenate. Giurami che non ti metterai mai in mezzo alle correnti, mi fa promettere mamma alla partenza. La prima sera mi ritrovo in una camerata con quattro finestre spalancate, un vento da regata. Penso: stanotte muoio. Ma sono bravina a cavallo, con il tennis appreso in Etiopia me la cavo. Era uno sport molto diverso, non si guadagnava una lira! Anzi: prendere soldi era proprio vietato. Infatti a me il tennis ha dato tutto, tranne il denaro. Però vedo che sono rimasta nel pensiero di molti, e i miei vestitini sono esposti al Victoria & Albert museum».
Musa di Ted Tinling.
«Il sarto più in voga dell’epoca, che per me confezionò (con intelligenza) cose arditissime! Papà, che era un uomo coraggioso ma molto severo, s’incavolò di brutto: Lea, scostumata, adesso vai a lavorare! Il primo anno a Wimbledon, era il ‘55, venivano tutti in processione a vedere le mie mutande di pizzo. La Federazione italiana minacciò di squalificarmi!».
Tutto tranne che una vita banale, cara Lea.
«Amo la vita in modo assurdo, ne sono follemente innamorata, peccato che un giorno dovrò andarmene: quando morirò sarò molto infelice. Tutto quello che mi è successo di negativo me lo sono fatto scivolare addosso».
Incluso il tumore.
«Mi venne un cancro, stavo male, ero triste, perché tacere? Ti vedo palliduccia, mi dicevano incontrandomi. E io: beh certo, ho un tumore. E quelli stupefatti, a bocca aperta! Parlarne, a quei tempi, era uno choc. Al professor Veronesi, un luminare, non parve vero: tappezzammo l’Italia di manifesti sulla prevenzione. Il cancro in fondo è come una partita a tennis: per batterlo preferisci avere tutto il pubblico che tifa per te».
Che coraggio, però.
«Non fu coraggio, mi creda. Fu piuttosto una richiesta d’aiuto, uno sfogo. Se ti tieni tutto dentro, se passi il tempo a piangerti addosso, è peggio. E ti viene l’angoscia».
Cambiamo argomento: parliamo d’amore?
«Oh no, non mi piace rivangare gli amori finiti. Ho avuto molte storie belle, mi sono anche sposata, diciamo che sono stata brava a non lasciare che la gente parlasse male di me, inclusi i miei ex».
Perdoni l’indelicatezza: non avere avuto figli è stata una scelta?
«Non ho fatto in tempo, avevo troppe cose da fare. O forse non ci ho mai davvero pensato sul serio».
Come riuscì, 60 anni prima della generazione di Pennetta e Schiavone, a far uscire il tennis femminile dall’ombra di quello maschile?
«Era un altro mondo, in effetti: le donne erano molto, molto suddite degli uomini. Ma non ho mai apprezzato particolarmente le femministe, quelle che combattono a testa bassa i maschi. Agli uomini non va fatta la guerra: vogliono essere più forti, sentirsi più fighi, basta lasciarglielo credere. Io non ho mai voluto essere al pari degli uomini, ho voluto essere protetta semmai».
Con Nicola Pietrangeli vi conoscete da ragazzi: è difficile credere che tra voi non sia mai successo niente.
«Ha ragione, a volte ce lo chiediamo anche noi: non è che non ci abbiamo pensato, eh... Ma io avevo sempre al fianco un’altra persona, lui almeno due! In compenso è nata un’amicizia infinita, lunga un’esistenza intera. Ci siamo pianti sulla spalla tante volte. Nicola si arrovella ancora oggi che va per i novanta: Lea, perché io e te mai?».
Panatta è stato il più bello?
«No. Umberto Bitti Bergamo, prima tennista e poi imprenditore, era il più affascinante in assoluto. Ho avuto una storia importante con Bitti. Purtroppo se n’è andato troppo presto».
Indro Montanelli la volle al «Giornale», firma della moda e del tennis.
«Fu così tenero con me... Soffriva di grandi depressioni, la segretaria mi chiamava: Lea, vieni subito che il direttore è in crisi. Lo portavo fuori a pranzo, si chiacchierava. Indro, vorrei scrivere di moda. E che ne sai, Lea? Tu mettimi alla prova. Cominciò così. Per la televisione invece devo ringraziare la voce e l’inglese: ai tempi nessuna lo parlava».
Ha rimpianti?
«Nicola dice che solo gli imbecilli non ne hanno. Ha ragione ma che vuole che le dica? Sarò imbecille. Forse sono stata una donna molto fortunata, al netto dei dolori che non sono mancati. La vita sa essere cattiva, soprattutto quando si parla di malattie. Ma io vedo sempre il bicchiere mezzo pieno, mi sono riempita l’anima di positività. È un atteggiamento che mi porto dietro da bambina».
L’Africa è stata maestra anche in questo.
«Sarà che quando sopravvivi alla savana e al fanatismo delle suore cattoliche irlandesi di Nairobi, poi non hai più paura di niente».