Il Messaggero, 12 gennaio 2023
Cronaca di quattro mesi di repressione in Iran
Le ragazze camminano a passo svelto sul marciapiede di una strada di Teheran, nel video girato col telefonino e lanciato sui social: alcune hanno i capelli sciolti, il foulard portato con negligenza, lascia sfuggire lunghe ciocche di capelli. Così doveva averlo anche Mahsa Amini quel 14 settembre. Era in gita nella capitale con la famiglia, tutti arrivati da Saghez, nella provincia settentrionale del Kurdistan iraniano. Ma quel giorno, nemmeno quattro mesi fa, Mahsa era stata fermata dalla polizia religiosa, portata in commissariato, 24 ore dopo era in coma, due giorni dopo era morta.
Era il 16 settembre. Sono passati meno di 120 giorni. La polizia religiosa è stata, almeno formalmente, sciolta. Ragazze senza velo girano per le strade delle città iraniane. Testimoni come Mohsen, commerciante di Teheran, citato dal quotidiano francese Le Figaro assicurano che sui voli della compagnia Mohan Air non si intima più alle passeggere di portare l’hidjab. Eppure le iraniane non hanno vinto. Né hanno vinto i manifestanti che protestano per le strade e le piazze, nelle scuole, nelle università, a volte semplicemente alla finestra delle loro case, nelle loro macchine. Il regime degli Ayatollah ha scelto la linea del bastone e della carota, dicono gli osservatori. È il loro modo di sfiancare quella che sembra la più profonda rivolta dalla rivoluzione del ’79. Ma il bastone della repressione resta l’arma più importante del regime. Dal 16 settembre, almeno 14 mila persone (quasi tutti giovani o giovanissimi, molte ragazze) sono finiti in prigione. I morti sono 450, forse molti di più, visto che i numeri arrivano soprattutto da Ong basate all’estero.
LE CONDANNE
Quattordici condanne a morte sono state pronunciate, quattro sono state eseguite (il più giovane a morire impiccato aveva 20 anni, il più vecchio 26). I condannati a morte, per reati più o meno legati alle manifestazioni, sarebbero in realtà più di una quarantina. Senza contare i suicidi in carcere: almeno una decina in questi quattro mesi. «Altri muoiono appena rilasciati ha detto sempre al Figaro la sociologa Mahnaz Shirali E nessuno capisce perché. Hanno ricevuto droghe o veleni? Non lo sappiamo ma è una cosa che fa sempre più paura».
L’ultima resa dei conti, anche all’interno del regime di Teheran, riguarda l’ex vice ministro Alireza Akbari accusato di essere una spia britannica e per questo condannato all’esecuzione.
Dal 16 settembre è un’onda quella che si è levata in Iran. Manifestazioni a volte spontanee, nelle grandi città, ma anche nei borghi rurali. Alle proteste per i diritti delle donne si sono unite quelle per il caro vita, contro la povertà, contro la repressione delle minoranze etniche, come quella curda, cui apparteneva Mahsa. La prima manifestazione duramente repressa dalla polizia scoppia subito dopo il suo funerale. Il 22 settembre, il regime blocca Instagram e Whatsapp, gli Usa annunciano sanzioni, seguiti da Canada, Regno Unito e Unione Europea, ma il presidente Raissi non cede e chiede alla polizia di agire con fermezza contro i manifestanti.
Le forze dell’ordine non esitano ad aprire il fuoco contro le folle, a sparare dentro le auto, a fare irruzione nelle scuole e nelle aule. Ma questa volta la rivolta è più forte della paura e del terrore. Cortei spontanei si creano spesso sorprendendo le forze di polizia. Il grido è «Donne, vita, libertà», ma chiede di più che liberare i capelli, chiede la fine di un regime. Il 3 dicembre il procuratore generale Jafar Montazeri ha annunciato la fine della polizia religiosa: un annuncio di facciata dicono in molti.
Mercoledì scorso la guida suprema Ali Khamenei ha affermato che «le donne che non portano completamente il foulard non devono essere considerate fuori dalla religione o messe al bando della repubblica islamica». Per gli osservatori, il regime punta scientemente alla confusione, con l’obiettivo di sfiancare la protesta. La repressione in compenso non si stanca. Ancora ieri sono arrivate notizie di militanti scomparsi, di giornalisti aggrediti. Ed è diventato virale l’audio dell’ultima telefonata al padre di Mohammed Mehdi Karami, impiccato quattro giorni fa a 22 anni: «Papà hanno pronunciato le pene, mi hanno condannato a morte, non dirlo a mamma».