Corriere della Sera, 12 gennaio 2023
Intervista a Claudio Luti
I l sorriso non inganni. Le parole sembrano lasciate cadere con noncuranza. Ma provate voi a decidere di mettere del talco nel polipropilene per far diventare la plastica qualcosa di morbido, elegante e pieno di calore. E se decidete di piegare qualcosa che normalmente si spezza, come il legno, devi aver voglia di rischiare. Certo ci deve essere anche un signore come Philippe Starck che si è messo in testa di vedere quanto il legno possa piegarsi, che di creatività e rigore ha fatto il suo credo. E che ogni mese arriva di buon grado alla periferia di Milano per prendere un tè. O bere un caffè. In quella Noviglio dove si concentra l’essenza del made in Italy. Quella capacità di rendere unico un prodotto industriale che dura nel tempo. In una parola la Kartell. Perché anche la plastica non è tutta uguale. Sembra scontato. Ma dietro quell’idea c’è studio, ci sono designer, c’è produzione, ci sono famiglie e persone. E mentre l’Italia è alle prese con nuove riforme e proposte si deve partire da quel sorriso di Claudio Luti, che significa oltre Kartell, Salone del Mobile, Triennale, Milano, design, creatività e crescita continua, per capire come le imprese continueranno a essere il motore del Paese. «C’è da tremare solo a ricordare le crisi che abbiamo superato in questo scorcio di millennio e quella nella quale ci troviamo coinvolti ora», racconta.
Ma non è sempre stato così, il mondo? Quando mai l’Italia ha vissuto epoche tranquille?
«Sì, è sempre stato così verrebbe da dire e soprattutto le imprese italiane hanno sempre dimostrato la capacità e la volontà di innovare e innovarsi per contrastare gli scenari più catastrofici. Anche se adesso serve un segnale forte che dia certezze alle imprese. Quelli della mia generazione hanno forse avuto più fortuna rispetto ai giovani di oggi. Negli anni ‘70/’80 tutto sembrava possibile. Avevamo meno soldi in tasca ma pensavamo di avere molte più sicurezze sul futuro, futuro che dipendeva dalla nostra volontà di impegnarci e di costruire il nostro successo. A me è capitato così. Oggi per i giovani è molto difficile e al tempo stesso molto stimolante».
Ed era la Milano del terrorismo...
«Sì quella Milano ma anche la Milano delle opportunità. Ad esempio al mio ritorno da militare che feci come ufficiale, trovai il mio primo lavoro dal papà di una mia amica. Era un commercialista e stava cercando un giovane per lo studio, a zero lire. Imparai moltissimo e appena possibile decisi di aprire il mio studiolo».
Ma poi arriva Versace.
«Vero, si apre un nuovo capitolo della mia vita e carriera. Conobbi Santo Versace quando ero ufficiale a Caserta e poi a Palmanova. Un giorno mi chiamò e mi disse: c’è mio fratello Gianni che fa lo stilista e si trasferisce a Milano, gli puoi dare una mano, prenderlo come cliente».
Bè, una bella fortuna segnare una storia di successo con una telefonata.
«Oggi può sembrare strano questo approccio, ma fu proprio così. Ho iniziato a seguire Gianni e a immergermi nel mondo della moda milanese che stava nascendo. Alla fine del 1977 la scelta è stata quella di costituire una società con Gianni e Santo di cui io ero amministratore delegato e avevo una quota di minoranza. Fu l’inizio di quello che sarebbe poi diventato un brand di grande successo».
Allora com’è che Versace diventa Versace?
«Gianni era un genio impareggiabile, accanto a lui io ho costruito le fondamenta dell’impresa cercando di razionalizzare il lavoro completamente nuovo che metteva in relazione tutti gli attori di una grande filiera di eccellenza che ha aiutato lo sviluppo di quello che sarebbe diventato il sistema della moda».
Quella moda che oggi diamo per scontata...
«Milano negli anni Ottanta era diventata la capitale del pret à porter. Il mondo era molto più piccolo e tutto da conquistare. A Oriente esisteva solo il Giappone. C’era il muro di Berlino. Oggi non esistono barriere ma una competizione globale e una opportunità infinita di sviluppo».
Ma Milano è oggi ancora la Milano delle opportunità?
«Oggi Milano conserva quella sua capacità di essere motore, incubatore di energia, attrattore di creatività e innovazione. Qui si combinano il lavoro, gli amici, la famiglia, ci accomuna la voglia di lavorare, discutere, confrontarci e divertirci, stare insieme. Questo è Milano, almeno per me».
A un certo punto capisce che il suo cammino con Versace si sta concludendo...
«Dopo 11 anni decisi di uscire e di vendere le mie quote alla famiglia Versace. E mi ritrovai a ripensare al mio futuro con la serenità finanziaria che mi ero guadagnato e una famiglia che mi sosteneva nelle scelte. Mia moglie è cardiologa. Abbiamo due figli. Lorenza e Federico di cui, quando erano piccoli, si è occupata moltissimo la mia mamma che ha sempre abitato vicino a noi».
Zero lire
Al mio ritorno da militare trovai il primo lavoro dal papà di una mia amica Era un commercialista che cercava un giovane per lo studio, a zero lire
E arrivò Kartell, grazie a sua moglie.
«In realtà grazie all’avvocato e al commercialista di famiglia. I miei suoceri avevano fondato Kartell insieme a un socio e in quel momento volevano uscire così io colsi l’occasione. Anche se – e il sorriso si fa pronunciato – i miei amici consulenti mi obbligarono a non entrare in azienda fino a che il passaggio del 100% non fosse stato compiuto. E così facemmo».
Ma com’è che Kartell diventa Kartell ed entra nei musei?
«Il design industriale, è quella la svolta. La produzione industriale sui grandi numeri ma con qualità e creatività. È il coraggio di rischiare ogni giorno su ogni progetto, quel coraggio che deve essere il motore della nostra passione. È quello che ci distingue e che affascina i designer, al di là del materiale usato».
Designer che dovrà inseguire per il mondo, con voi lavorano da Lissoni a Patricia Urquiola, Philippe Starck, Citterio, Laviani e prima ci sono stati Magistretti e molti altri.
«È il contrario, sono loro che vengono qui. Ogni martedì abbiamo una riunione. Tutti arrivano almeno una volta al mese. Con ciascuno di loro spendo il tempo necessario non solo per parlare di progetto ma anche di temi generali per entrare in sintonia. Poi si inizia a discutere, verificare i prodotti e analizzare nuove idee. Io inseguo la loro creatività. Voglio che siano liberi di esprimere un pensiero creativo capace di trasformarsi in prodotto industriale. Portare la qualità estetica, i valori di cultura e bellezza nell’industria è la nostra missione strategica».
È così che siete riusciti a curvare il legno, a chi è venuta l’idea?
«A Starck. Voleva lavorare sul legno. Non è stato facile, ma mi viene da dire solo qui a Milano, in Italia ci si poteva riuscire. Combinando ingegno e industria, tecnologia e emozione. Quello del legno però non è l’unico esempio, ci sono stati tanti progetti molto più complessi a livello tecnologico sviluppati con diversi designer sul tema delle dimensioni, degli spessori, della ingegnerizzazione del prodotto, della luce. Dall’idea si passa alla ricerca di soluzioni magari utilizzando tecnologie di altri settori applicati ai nostri prodotti di design. Per tutti sempre ci vuole il cuore, non solo la testa. Bisogna creare prodotti che suscitino emozioni».
Magari a partire da scarti delle capsule di plastica del caffè Illy che diventano una sedia disegnata da Citterio...
«Un altro esempio del nostro impegno sulla ricerca di nuovi materiali e sui progetti di sostenibilità nel caso della sedia di Citterio nasce dall’amicizia con Andrea Illy con cui abbiamo pensato di lavorare sul riciclo delle capsule del caffè. Sul riciclato noi lavoriamo da molto tempo e ora è integrato nel nostro catalogo. Quando ancora non ne parlava nessuno nei primi anni Novanta noi creammo il primo gettacarta con il riciclo della plastica».
Parla spesso di amicizia come con Illy, della famiglia.
«Per me la relazione diretta umana viene al primo posto. Famiglia e amici sono il capitale più importante. Con gli amici con cui trascorro il mio tempo libero condivido le mie passioni come la barca a vela, che ora è un po’ vecchiotta ma che continua a darmi soddisfazioni e a portarmi nel mio adorato mare Mediterraneo, lo sci».
E adesso, che fa? Si ferma?
«Macché. Possiamo fare ancora tanto... Certo servono investimenti continui. I risultati ci sono. Siamo orgogliosi del nostro progetto Kartell Loves the Planet, che è un manifesto strategico su un concetto ampio di azienda etica e sostenibile. Ritengo che l’azienda sia qualcosa di sociale. Lo dico sempre ai miei due figli che lavorano in azienda».
Ma adesso ci sono i figli in azienda, sono d’accordo?
«Lorenza direttore marketing e retail e Federico direttore commerciale worldwide, sanno camminare da soli per quella strada tenendo fermo il concetto di etica aziendale e io cerco, con un po’ di fatica, ammetto, di lasciarli fare da soli».
Già, è tempo di ricambio generazionale. E non è mai facile.
«Non è facile no. Ma Lorenza e Federico, hanno avuto tempo, entrambi, di assimilare i contenuti della laurea in Bocconi con tesi proprio sul ricambio generazionale. Si sono preparati».