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 2023  gennaio 12 Giovedì calendario

Hanif Kureishi, lo scrittore che può solo parlare

Da bambino, Hanif Kureishi andava in biblioteca tutti i giorni. Dal 1964 al 1974, mentre diventava adolescente e poi ragazzo, segnava su un taccuino i libri che leggeva, anno dopo anno. Nell’anno dei suoi 11 ne aveva letti 86, un numero che ha molto colpito suo figlio, il quale ha poi aggiunto: immagino che la sera non ci fosse nient’altro da fare. Un dialogo che dice molto di cosa significa nascere in un’epoca piuttosto che in un’altra, e anche di cosa significa essere uno scrittore. O meglio: essere uno scrittore nato in tempi in cui il mondo era sempre piccolo, da qualsiasi parte lo si guardasse somigliava a una stanza angusta, alla provincia, alla periferia.
Un mondo a forma dell’angolo cui eri risospinto, dal quale coltivavi la tua evasione e il tuo riscatto che, invece, erano infiniti, come le pagine dei romanzi che potevi prendere a prestito in biblioteca. Un mondo in cui andare altrove significava leggere, e procurarsi le letture giuste non era una questione di click. Oggi che l’altrove si è avvicinato a dismisura c’è chi dice che non nascono più scrittori (ci sarà sempre qualcuno abituato a considerare la fine del proprio mondo come la fine del mondo tout court), forse perché gli è difficile riconoscerli, dare un senso nuovo a una parola che ha creduto familiare. Forse perché serve non essere miopi per vedere che, persino nell’epoca in cui tutto sta al centro, anche al centro di uno schermo, uno scrittore è chi riesce comunque a trovare il margine, ovvero l’unico punto da cui sia interessante osservare. E scrivere.
Da qualche giorno, Hanif Kureishi scrive da un letto d’ospedale. L’ospedale è il Gemelli, a Roma. Il 10 gennaio ha scritto: «La letteratura, al suo splendore, è una vera bastarda. Dalla più volgare e scurrile alla più sublime e poetica. Puoi mettere qualsiasi cosa in un libro, torcerlo e volgerlo in qualcosa di indimenticabile».
Ho chiesto a Tommaso Pincio, scrittore e traduttore, la traduzione di questo tweet, perché volevo una voce d’autore e sensibile, non un automatismo, per queste poche righe. Per questa affermazione geniale e semplice, del tutto condivisibile per chi scrive, o per chi considera la lettura qualcosa in più che una saltuaria evasione. Kureishi, per fortuna, è della vecchia scuola, quella per cui uno scrittore è anche un grande lettore, anzi è ancora più categorico: «Tutti gli scrittori sono anche dei grandi lettori», ha detto ottimisticamente qualche anno fa. Nella stessa occasione, un discorso pubblico tenuto durante un festival in Italia, aveva ricordato che da bambino l’idea di riconoscersi nella parola scrittore gli aveva aperto infinite possibilità di futuro, aveva sentito di poter avere anche lui un’identità. E aveva detto che tutto questo era successo una mattina, a scuola, guardando fuori dalla finestra.
Adesso, dal letto di ospedale da cui non può muoversi, dal margine in cui la vita l’ha costretto, Kureishi guarda dalla finestra. Scrive di Roma, la città in cui si trova senza poterla attraversare, scrive dell’epoca in cui viviamo, un altro margine, e mette insieme memoria e futuro in modo sensato e creativo. Parla delle creature che si stanno prendendo cura di lui, che ha perso l’uso degli arti e il senso del tempo, e dice che quest’Italia giovane, non binaria e queer, è favolosa. Dice anche che il Vaticano è gay quanto l’industria della moda e che l’estetica del Rinascimento è basata sulla sessualità poliamorosa. Insomma, in giro non sta accadendo nulla che non sia stato da noi, proprio da noi, canonizzato e istituzionalizzato.
A proposito di Kureishi, ho usato in modo fungibile due verbi, scrivere e dire, e non per caso. Dal suo margine, dal letto di ospedale da cui sa di essere vivo per caso e non è certo di potersi riappropriare di un corpo che non gli risponde, Kureishi non sta scrivendo un libro, anzi non sta proprio scrivendo nel senso fisico del termine. Sta dettando dei tweet e una newsletter a chi li scrive per lui. Fa anche metaletteratura, quando scrive che sua moglie, Isabella D’Amico, si intromette nel flusso per fargli notare che, non avendo mai imparato l’italiano, forse non è la persona più adatta a dare giudizi sul nostro Paese. Ma Kureishi è uno scrittore, non un tecnico, non uno studioso, non un sociologo: quello che ha scritto sull’Italia è di una precisione che nessuna statistica potrà eguagliare. Quello che differenzia uno scrittore da un non scrittore non è che scriva su un social network o su uno scontrino, che stia scrivendo un romanzo o un messaggio, ma il fatto che le sue visioni, i suoi sogni o incubi, le sue allucinazioni o ispirazioni, siano così esatti e inchiodanti nel parlare di noi.
Sarebbe caricaturale aspettarsi da uno scrittore che faccia letteratura anche su un biglietto, e non è detto che succeda. Però, se succede, lo riconosci: riconosci il timbro, la voce, l’embrione di un immaginario. Kureishi fino a ora aveva usato i social network come la maggior parte degli scrittori, un po’ per autopromozione, un po’ per rilanciare le sue idee, un po’ per sostenere i suoi amici (Salman Rushdie), un po’ dimenticandosene. Poi, come chi si fruga nelle tasche alla ricerca di uno scontrino dove appuntarsi ciò di cui gli importa, ha deciso di usarli per scrivere quello che stava vivendo, non solo i fatti, ma i pensieri. Ha deciso che quella disintermediazione a portata di mano era la più alta forma di contatto di cui aveva bisogno. Alcune delle cose che sta scrivendo le aveva già usate altrove, ma adesso è anche un altro tipo di pubblico a leggerlo, o forse è la sua generazione, e anche la mia, e anche tutte quelle in mezzo, a non andare in biblioteca da un po’. Ho ricevuto molti messaggi che sostanzialmente dicevano: eh, ma com’è bravo, com’è commovente. Verissimo, ma Kureishi è sempre stato così.
E io, confesso, sto salvando quello che scrive come fosse un altro testo, inedito, da mettere in fila sul suo scaffale. —