Corriere della Sera, 11 gennaio 2023
Un’intervista divertente a Paolo Belli
Ma poi al Liga gliel’ha fatto lo sconto sulla chitarra elettrica?
«Uno sconticino, perché il negozio di strumenti in cui lavoravo come commesso non era mica il mio e il titolare da quell’orecchio non ci sentiva tanto».
Quasi vicini di casa, voi due.
«Io di Carpi, lui di Correggio, tra le nostre case ci sono sì e no nove chilometri. Da ragazzi stavamo spesso insieme, stessi sogni, stessa passione, la musica. Una volta, tornando in auto, si rifletteva sulla vita e sul destino. Per due come noi, gente semplice di pianura, non era né facile né scontato avere successo. Ci siamo guardati negli occhi e quasi commossi. Poi siamo scoppiati a ridere: “Caspita che gran c... che abbiamo avuto!”», racconta Paolo Belli, 60 anni, esuberante, schietto ed emiliano come uno gnocco fritto («Non me lo nomini, per pietà, che oggi è il giorno che mi tocca solo frutta e verdura»). Così era da capobanda dei Ladri di Biciclette (quelli di «Siamo là -là-drì di biciclette siamo là-là-là e siamo qua») e così è rimasto (con quella appena finita sono 17 edizioni) da scatenato maestro d’orchestra, sgargiante co-presentatore e soprattutto gran consolatore/motivatore dei concorrenti di Ballando con le Stelle, prima di ripartire il 25 gennaio con il tour teatrale del suo show Pur di far commedia.
Un bambino di Formigine o Furmézen, come dite voi nati vicino Modena.
«Infanzia meravigliosa. La mia famiglia era molto umile, non avevamo niente, però eravamo sempre allegri. In paese saremo stati tremila, ogni scusa era buona per fare baldoria. Ed era pieno di bimbi, la tv non c’era e il passatempo preferito – cosa vuole – era sempre quello».
Mamma Piera faceva la cuoca alle Feste dell’Unità.
«Cucinava per un esercito: cofane di tortellini, lasagne, tagliatelle. In paese eravamo davvero come nel film Peppone e don Camillo: tutti i maschi erano comunisti, tutte le signore donne di chiesa sempre in parrocchia. Politica e religione erano un pretesto per stare in compagnia. Mai rimasto da solo nemmeno per un giorno. D’estate al campo sportivo ogni sera alle 18 c’era la grande sfida a pallone, trenta contro trenta, grandi e piccini».
Papà Guido, benzinaio.
«Un giorno, avrò avuto dieci anni, gli chiesi: “Vorrei tanto un pianoforte”. “Compralo”, rispose, punto. Fu così che chiesi a un contadino lì vicino se potevo dargli una mano con qualche lavoretto. Mi mise a raccogliere le barbabietole. Una fatica terribile, sempre piegato in due con le mani nella terra. Un giorno mi ribellai: “O mi fa guidare il trattore oppure non vengo più”».
Piccolo sindacalista.
«In tre mesi racimolai cinquantamila lire. Mi comprai una pianola usata, che mi pareva la più bella del mondo. Aveva sette tasti rotti. “E tu usa gli altri”, mi suggerì papà».
Al conservatorio studiò fagotto.
«L’unico corso a cui c’era rimasto posto. Pianoforte no, chitarra no, violino no, tromba nemmeno. La sera tornai a casa con la mia bella valigetta, con dentro i tre cilindri di legno da avvitare. “Cos’hai rubato?”, mi chiese mamma, sospettosa. “Niente, guarda, è il mio fagotto”. “Ecco, lo hai già rotto”».
Sulla carta sarebbe pure perito elettronico.
«Non so avvitare nemmeno una lampadina, appena sfioro un filo salta in aria la centralina di tutta Carpi. Mia moglie mi supplica di non toccare niente. Due anni fa comprai un macchinario per fare ginnastica in casa, non sono mai riuscito a montarlo».
I primi tempi suonava in sette band, una diversa al giorno.
«Passavo dal blues al rock alla mazurka, più tardi poi mi è servito».
Ne ha mangiato di pane e cipolla, parole sue.
«Eccome. C’era sempre una festa a cui suonare, fermi non stavamo mai, si partiva con un pulmino scassato blu, la paga a fine serata però era un panino e una birra».
Poi sono arrivati i Ladri.
«Mi sono sposato e trasferito a Carpi. Lavoravo nel negozio di strumenti del mio ex insegnante di piano, ci venivano un sacco di ragazzi del conservatorio. Conosci questo, conosci quello, mettemmo insieme la band. Al terzo giorno avevo già scritto Ladri di biciclette. Subito dopo Dr Jazz & mr Funk. Un’esplosione di energia creativa. Partimmo con i concerti. Al primo vennero in 10, quindi in 30, 500, mille. Col passaparola dopo un anno eravamo richiestissimi. E la paga diventò due panini e due birre».
Nel 1988 partì per Milano bardato come Totò e Peppino.
«Con in mano una cassettina da portare alla Emi. Un anno dopo eravamo a Sanremo».
Eliminati alla prima serata, ma portò bene.
«Vasco Rossi ci prese come gruppo spalla ai suoi concerti. Grande Blasco, generoso. Una volta al ristorante gli confidai: “Sai, ti invidio per come scrivi i testi, io a comporre la musica ci metto tre minuti, ma poi con le parole mi pianto lì”. E lui: “Quando hai una canzone, dalla a me che te la sistemo io”. Ho preso la palla al balzo e gli ho portato una melodia. È diventata Bella città. Pazzesco, è sua, ma sembra che abbia usato la mia testa e la mia anima».
Sotto questo sole («è bello pedalare sì, ma c’è da sudare»), in coppia con Francesco Baccini, vinse il Festivalbar 1990.
«Gli dissi: “Dai, cantala con me”. È stato bello, ma poi non ci siamo più sentiti. Non avevamo niente da condividere e l’ho chiusa lì».
Dopo il picco, il tonfo. Addio Ladri. Anni che passano. Il telefono che non squilla più.
«Un periodo difficile, che ho superato grazie a mia moglie Deanna che mi ripeteva di non mollare. Un giorno stavo per lanciare il cellulare contro al muro, quando all’improvviso suonò. Era Piero Chiambretti. “Hai da fare? Perché non passi da me?”. Ho preso l’auto e sono andato. Preparava Il laureato bis per Raitre».
Con lui d’amore e d’accordo.
«È una macchietta, irresistibile. Professionista pazzesco. Una sera ero nella stanza d’albergo accanto alla sua, muri sottili, lo sentivo preparare le interviste facendosi domande e risposte, andò avanti per ore. Ho capito come si fa la tv».
Con Panariello, due amiconi.
«A Torno sabato eravamo un’armata Brancaleone, ma mi divertivo così tanto che quasi non volevo tornare a casa,dopo. Anzi, approfitto di voi: “Giorgio, se vuoi io sono qua”».
La saggezza di Gianni Morandi.
«Mi disse: “Io ho avuto due fortune, caro Paolo: fare successo e ritrovarlo”. Per me è stato uguale. Perché il treno passa tutti i giorni, ma tu devi essere pronto a salirci».
Milly Carlucci le mette ancora soggezione?
«Sempre, come il primo giorno. Perché lei è bravissima, perfetta, io un terribile pasticcione. Sbaglio tutto, dalla grammatica alla posizione in scena alle parole da leggere sul gobbo, ma poi alla fine risulta tutto giusto perché spontaneo».
Angelo custode dei concorrenti di Ballando.
«Prima o poi devo consolare tutti. Inconvenienti? Eccome se capitano. Una coppia doveva scendere in pista ma il ballerino non si trovava. Era in bagno. Crisi di panico? Uuh... tante. Ricordo con affetto Fabrizio Frizzi, che per me era un fratello maggiore. Contava i passi di continuo: “Cinque, sei, sette, otto”, era fissato. Quest’anno Iva Zanicchi fremeva, non vedeva l’ora che toccasse a lei. Dietro le quinte ci parlavamo in dialetto».
Ha vegliato pure su Diego Maradona.
«Ho palleggiato con lui in diretta, cantando e ballando, un onore. Come faceva al Napoli con i compagni di squadra, a Ballando prendeva le difese di tutti i concorrenti, anche se in teoria erano suoi rivali. Un professionista. Arrivava il giovedì da Buenos Aires, studiava la coreografia, affrontava la gara e la domenica ripartiva per l’Argentina»
Con chi ha un caratteraccio, come ve la cavate?
«Ne abbiamo avuti diversi, difficili o permalosi, ma con Milly accade il miracolo, si sentono protetti e rispettati e di colpo diventano tutti dolci come zuccherini».
Uno che vi ha fatto penare.
«Il mio amico Bobo Vieri. Ci ho messo anni a convincerlo a partecipare, si vergognava. Invece è uscito fuori per quello che è, divertente e simpatico. Adesso mi ringrazia. “Avevi ragione tu”».
Va sempre in bicicletta ogni giorno?
«La carico in auto e me la porto ovunque. Quando mancano 70 km alla destinazione, scendo e continuo in bici. A Roma ogni giorno ne faccio almeno 50, evitando i sampietrini...».
La dieta.
«La mia croce. Vorrei essere magro e non lo sono, vorrei non essere un mangione ma lo sono, le diete le ho provate tutte. Funzionano. Purtroppo funzionano pure i tortellini, ne mangio finché ce n’è, per quello poi devo correre a pedalare».
Ha dovuto rinunciare ai ciccioli?
«Ah... i ciccioli! Perché me li ha nominati? Mmm... Noi emiliani li inzupperemmo pure nel caffellatte».
I suoi vestiti sono... beh, catarifrangenti.
«Prima mi sbizzarrivo solo con le scarpe, bicolori, rosa fucsia, dorate. Poi sono passato al resto. Gli outfit li sceglie mia moglie con la costumista, tenendo conto che non sono uno stangone da un metro e 90. Ma sa che mi scrivono tante signore per sapere cosa mi metterò in puntata?»
Perde sempre tutto ciò che tocca?
«Sono campione mondiale. Semino cose lungo il tragitto. All’ufficio oggetti smarriti di Fiumicino mi fanno le feste. “Che si è perso oggi?” Ombrello, cappotto, telefono, chiavi, portafoglio, lascio in giro qualunque cosa. Una volta sono andato in aeroporto senza passaporto, sono tornato indietro, l’ho preso, ma quando sono arrivato non c’era più, l’avevo perso di nuovo, sono senza speranza».