il Giornale, 11 gennaio 2023
Storia della casa editrice Castelvecchi
«Underground overground internazionale giusto?». «Giusto, Paulo». Era la fine 2001, l’inizio della fine, ma esattamente trent’anni fa, tra il 4 e l’8 gennaio del 1993, fu fondata in una cucina la Castelvecchi Editoria & Comunicazione, ossia la Castelvecchi, la casa editrice più innovativa degli ultimi trent’anni. A farlo furono Alberto Castelvecchi e la compagna Alessandra Gambetti. Ma la mente, ovviamente, era Alberto. La storia è lunga e tempestosa, la Castelvecchi rinnovò l’editoria con saggi d’avanguardia dalle copertine pop, da Tommaso Labranca a Gianluca Marziani (il critico più importante della sua generazione, che oggi oltre a curare centinaia di mostre scrive bellissimi reportage di mostre su Dagospia intitolati «Un Marziani a Roma»), e sulla narrativa né beccò diversi, dagli esordi Aldo Nove a Isabella Santacroce, da Nicola Lagioia e perfino a me, pubblicando il mio secondo romanzo sull’incesto, più estremo di De Sade, intitolato Mamma, e come sottotitolo il perfido Alberto aggiunse «romanzo d’amore», facendolo uscire per la Festa della mamma, con il risultato che molti ragazzini lo regalarono alle mamme e a molte mamme prese un colpo, volevano denunciare me, la Castelvecchi, tutti. Divenne un caso. Io e Nicola Lagioia ci trovammo insieme a lavorare lì, per circa un anno, l’ultimo anno, entrambi assunti in seguito a due nostri primi romanzi, ma la Castelvecchi si era espansa al massimo, era fallita e risorta dalle sue ceneri: la maggioranza fu prima acquistata da Francesco Coniglio, altro geniale editore, e da lui poi rivenduta per liberarsi di Alberto, che lo denunciò per estorsione, non sopportava che la Castelvecchi andasse in mano di altri, già non sopportava Coniglio. Ma a un certo punto Alberto si presentò da Coniglio con un miliardario tedesco stranissimo, un gigante di due metri, Paulo Von Vacano, che mise piede nella sede di Coniglio indossando stivaloni da cowboy e soprattutto mise il cash e da lì si aprì la nuova sede a Roma in Via Severano, dove ci ritrovammo io e Lagioia e una manica di pazzi che Alberto aveva visto bene a selezionare. In Via Severano, proprio nella ex sede di Theoria di Paolo Repetti, che nel frattempo aveva fondato Einaudi Stile Libero e si era messo pure con la Gambetti, la compagna di Alberto. Ma a Alberto non interessava, a lui interessava solo la Castelvecchi. Non era più una casa editrice, era la CIA, il manicomio della CIA. Io e Lagioia stavamo al piano di sotto con la redazione, ma nessuno poteva entrare senza l’autorizzazione del piano di sopra, perché chiunque avrebbe potuto carpire i «segreti industriali». Al piano di sopra c’erano Alberto e Paulo Von Vacano e la sala riunioni e altre sotto-galassie come Castelvecchi Arte o Enola, la collana gay di Antonio Veneziani, poeta gay allievo di Dario Bellezza che era stato allievo di Pasolini, una matrioska di allievi gay. Occupavamo tutte le pagine dei giornali, riunioni ogni giorno con Alberto, che non era un editore, era un guru. Pelato, magro, sempre vestito di nero, emanava un misticismo che non sapevi mai se eri in una setta o con Steve Jobs incrociato con il Dalai Lama. Paulo Von Vacano aveva il biglietto da visita con su scritto Presidente, era così che aveva convinto la mamma ricca (o meglio l’aveva convinta Alberto, che con le donne ci sapeva fare) a dargli i soldi, e di soldi lì dentro ne finirono tanti (alla fine pare ci abbia lasciato due miliardi di lire). Ogni riunione era un progetto strategico, alla conquista del mondo. Alberto parlava, tutti ascoltavano, poi ognuno poteva dire la sua. Von Vacano, con il suo biglietto da visita da presidente più costoso del mondo, alla fine faceva sempre lo stesso commento: «Underground, overground, internazionale, giusto?». «Ovviamente Paulo» lo rassicurava Alberto. Un giorno partirono per Londra, per capire come aprire la Castelvecchi London, essendo già in programma la Castelvecchi Deutsche e la Castelvecchi New York. Di certo, in quel delirio, Alberto in dieci anni aveva cambiato la storia dell’editoria. I libri erano colorati, ognuno con suo colore sgargiante di fondo, e riconoscibilissimi. Se ne facevano tanti, troppi, per occupare spazio in libreria e sfidare i grandi editori come mai prima, ma nessuno era un libro stupido, tutto era sempre innovazione, anticipazione. Si pubblicavano anche i libri che non esistevano. Io mi occupavo delle relazioni con la stampa. Un giorno mi capitò una giornalista di Sette, del Corriere della Sera, che voleva l’anticipazione di un libro che stava per uscire, un saggio sui vecchi computer, ma io e Lagioia ci accorgemmo che il libro non era mai stato consegnato, l’autore era sparito, o morto di overdose, chi si ricorda. Alberto ci guardò e ci disse: «E allora? Vendetegli l’anticipazione». «Ma non c’è niente». «Scrivete una scheda e una prefazione finta e gliela diamo». Così facemmo, e uscirono tre pagine di Sette su un libro inesistente. Ma tanto non importava, perché Alberto sfruttava anche questo: i giornali avevano talmente l’ossessione dell’anticipazione che gli potevi anticipare tutto, anche quello che non c’era, tanto poi chi se lo ricordava. Era anche un circo bellissimo. Nel sacro ufficio di Alberto, per esempio, era sempre appeso il calendario dei carabinieri, ma quando arrivava Toni Negri il calendario spariva. Appena Toni Negri se ne andava, Alberto rimetteva il calendario. Nel 2012, poco prima che fallisse, noi dipendenti facemmo causa alla società, e ancora oggi su Wikipedia c’è scritto «perché non pagava i dipendenti». Non è vero, ci ha sempre pagato e bene, e se gli abbiamo fatto causa anche io e Lagioia è perché siamo stati trascinati alla Cgil da Nicoletta Sereggi, la redattrice più brava ma anche la più comunista che arringò alla folla di noi quindici dipendenti come Lenin prima della rivoluzione d’Ottobre. Ci accodammo perché temevamo arrivasse il Kgb. In fondo l’unico a rimetterci è stato Paulo Von Vacano, o meglio ci ha rimesso la mamma di Von Vacano. Ma non penso ci abbia davvero rimesso, ha dato vita a una realtà editoriale che ha cambiato il provincialismo dell’editoria italiana. Underground, overground, internazionale, come aveva imparato a dire Paulo. L’altro giorno ho chiamato Alberto perché volevo intervistarlo, ma ha cominciato a parlarmi di zen e farmi una lezione di spiritualità, e mi sono messo a sbadigliare. Sentivo il disprezzo per me: non gli sono mai piaciuto, non si è mai fidato di me. Dal suo punto di vista, anche qui, come dargli torto.