La Stampa, 10 gennaio 2023
Intervista a Vittorio Sgarbi
Nella definizione di Cesare Garboli in Scritti servili (Einaudi), ripresa da Mario Baudino su queste pagine nel dibattito sulla critica, c’è uno scrittore-scrittore, che «lancia le sue parole nello spazio» ed esse «cadono in un luogo sconosciuto» e poi c’è uno scrittore-lettore che «va a prendere quelle parole e le riporta a casa, come Vespero le capre, facendole riappartenere al mondo che conosciamo». «Le capre sono oggi innumerevoli rispetto al mito greco, e per di più sono spesso fantasmi di capre, storielle scritte benino e tutte uguali, Vespero ha sempre più problemi», conclude Baudino. Considerando che Vespero nella mitologia romana diventa Lucifero, il «portatore di luce», e che di capre lui se ne intende, abbiamo scomodato sul tema il sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi, 70 anni, ferrarese.
C’è ancora spazio per la critica?
«La critica ha tante forme. Può riguardare l’attualità, essere militante o indipendente, letteraria, cinematografica, d’arte, ma spesso soffre la schiavitù del mercato, dall’editoria ai premi. Esiste poi uno scambio tra chi recensisce e chi attende la critica. Questo non riguarda solo gli scrittori, ma anche chi criticando si dimostrerebbe fuori dal mondo».
Il dibattito su La Stampa è iniziato con Paolo Di Paolo, che analizzando la raccolta La ragazza dagli occhi d’oro di Pietro Citati (Adelphi) ricorda come un tempo chi leggeva una recensione su un libro correva in libreria per comprarlo o non lo avrebbe mai fatto. Un potere tramontato?
«Una stroncatura destabilizza i rapporti e oggi nessuno vuole seccature. Inoltre, semplicemente non è ammessa perché indica l’alterazione del prodotto. Una volta attaccai la pasta Barilla e venni censurato da una sorta di tribunale dei consumi. Appresi con amarezza che un prodotto commerciale non può essere criticato. In realtà, poi sono nati spazi online come Tripadvisor per recensire alberghi e ristoranti».
Piero Dorfles nel suo intervento lamenta che i critici non criticano a sufficienza e propone di recensire loro. Una buona idea?
«Una bella provocazione. I critici anticipano, illustrano, ma sono in realtà degli uffici stampa o il loro prolungamento».
Non si sente la mancanza di una critica autorevole?
«Si avverte la destituzione della funzione del critico, che ora appunto è un cortigiano».
Anche nell’arte?
«Sì, uffici stampa, assessorati e critici che devono fare i curatori per vivere hanno sterilizzato il campo. La stroncatura è rara e ci sono al massimo belle descrizioni. Solo nel cinema è più facile lasciarsi andare a pareri disinteressati. Ricordo Goffredo Fofi, che stroncò Luchino Visconti e Federico Fellini. Nel mio piccolo ho fatto arrabbiare Michele Placido, che nel suo film L’ombra di Caravaggio ne mostra appunto l’ombra, cioè non si vedono il pittore e le sue opere».
Chi è oggi il critico d’arte?
«Un cameriere di pranzi allestiti da altri, a cui partecipa invitato per poi ricambiare alla mostra che curerà lui. Ci sono stati gli storici dell’arte, i critici dell’arte, i critici militanti, i critici indipendenti, i curatori e i curatori indipendenti. Questi ultimi si credono i migliori, ma sono i più schiavi di tutti. Non a caso gli artisti in voga sono sempre gli stessi da mostrare alle Biennali. Chi sta all’opposizione o ha grande personalità o viene emarginato. Oltre al caso mio, che è caratteriale, sono stati veri critici Federico Zeri, che si scontrò con me come con Cesare Brandi e Giulio Argan. L’altro che si oppose al mercato fu Giovanni Testori, non a caso dimenticato».
E Achille Bonito Oliva?
«Non è in grado di articolare un pensiero e se anche fa una stroncatura non la si capisce. Più che critico appartiene alla dimensione del criptico, che sembra intelligente perché si nasconde dietro al fumo. Così era pure Germano Celant. Gente che per parlare della mostra di un artista di Ravenna, inizia citando Wittgenstein».
Che cosa conferisce il diritto di critica?
«Non ci sono concorsi. Un tempo le rubriche sui giornali venivano date come cattedre universitarie e facevano tendenza. Su L’Espresso c’era Renato Barilli, su Panorama Arturo Carlo Quintavalle, sull’Europeo io. Eravamo i vigili urbani dell’arte. Il diritto di tribuna lo davano i direttori. Oggi i giornali danno poco spazio all’arte e ci si posta da soli sui social. Io mi sento un sopravvissuto di un’epoca che non c’è più».
Come si riconosce un’opera d’arte?
«Oggi conta solo il gusto del mercato. Quello personale non c’è più, perché tutto passa come opera d’arte».
Ma lei cosa apprezza?
«La capacità manuale e l’intelligenza, poi oggi ci possono essere anche altri lati legati alle nuove tecnologie. Con le mie mostre al Mart di Rovereto provo a indicare una rotta».
E se le dico Artissima, la fiera d’arte contemporanea torinese?
«Un’iniziativa di mercato credibile, dove il marketing seleziona bravi galleristi. Tanto che la vorrei replicare, portando 50 gallerie al Mart, eliminando l’ipocrita distinzione tra museo e mercato. Ma in molti spazi d’arte si vedono opere prive di interesse, nobilitate dal contenitore».
Cosa consiglia al ministro Sangiuliano?
«Dobbiamo ancora elaborare una strategia, ma si deve lavorare sull’attrattività dei beni culturali pur nel rigore della tutela. Oggi, invece, si va nei musei come prolungamento del weekend e la maggior parte sono vuoti. A differenza del ministro poi io sono per non far pagare il biglietto come in Gran Bretagna, dove ci sono ricavi autonomi».
Volete sdoppiare alcuni musei per esporre più opere?
«L’idea deriva dalla destinazione dell’Albergo dei poveri di Napoli, che potrebbe diventare la nuova Biblioteca Nazionale. Sia Brera a Milano sia gli Uffizi a Firenze poi hanno progetti di ingrandimento».
I prossimi direttori dei musei saranno italiani o esteri?
«Per quel che mi riguarda saranno di qualunque nazione. Sangiuliano, come per la lingua, è piu favorevole agli italiani. Personalmente ho suggeriti che solo Uffizi e Scala vadano a due italiani. Sangiuliano pensa che almeno nove direttori debbano essere italiani, che ha anche una logica perché i dirigenti dello Stato in genere non sono stranieri».
E Christian Greco all’Egizio di Torino può dormire sonni tranquilli?
«Che sia bravo è fuori discussione. Solo che chi ha fatto due mandati non sarà riconfermato, come nei Cinque stelle».
Avete in mente qualcosa sulla restituzione delle opere?
«Sono pratiche complesse, spesso legate a inchieste giudiziarie, ma immagino una serie di operazioni: dal Lisippo di Fano a Los Angeles al Doriforo di Policleto a Minneapolis, ai dipinti di Sebastiano Ricci a Berlino».
E la Gioconda?
«Quella la lasciamo al Louvre».
Chiudere la Netflix della cultura con 7 milioni di deficit è stata una buona idea?
«Ci stavamo lavorando con Morgan, ma è arrivata la decisione del ministro che ci ha preso in contropiede».
Morgan cosa fa con lei?
«Per ora mi aiuta senza un ruolo definito, poi potrebbe curare un osservatorio sullo spettacolo. È un creativo e potrebbe seguire un progetto sulla musica con il ministro dell’Università Bernini. Ieri ha anche organizzato una festa per i 90 anni di Liliana Cavani».
Della musica non si occupa già Beatrice Venezi?
«Lei è una scelta d’immagine di Sangiuliano, una direttrice giovane e bella che occupandosi soprattutto di musica classica potrà dialogare con Morgan sul resto».
Tornando alla critica, quali sono i suoi artisti prediletti?
«L’artista la cui pittura supera la vita stessa è Diego Velàzquez. Poi Ercole de’ Roberti, che dal 16 febbraio sarà al centro di una mia mostra a Palazzo dei Diamanti a Ferrara. E Tanzio Da Varallo, in alternativa a Caravaggio e dalle ancora più radicate contraddizioni».
E tra i contemporanei?
«Grant Wood, Domenico Gnoli, Gino De Domincis e Luigi Serafini».
E i libri preferiti?
«I miei quattro vangeli sono Ricordi politici e civili di Francesco Guicciardini, L’Ecclesiaste, Finzioni di Jorge Luis Borges e Le quartine di Omar Khayyam». —