la Repubblica, 10 gennaio 2023
Intervista a Thomas Piketty
Il razzismo non è un’opinione ma una realtà. Dobbiamo essere in grado di misurarlo per poter ragionare insieme su soluzioni». Thomas Piketty torna con un piccolo libro di rovente attualità. A metà tra il saggio e il pamphlet, Misurare il razzismo. Vincere le discriminazioni punta al cuore dei temi che agitano il dibattito politico europeo. L’economista francese noto per il bestseller mondiale Il capitale nel XXI secolo offre un prezioso contributo di riflessione e una risposta ai «seminatori di odio», come li definisce l’autore, che agitano paure sul tema dell’immigrazione. «Questo piccolo libro – spiega Piketty – ha una sola ambizione: mostrare che è possibile discutere concretamente sul modo migliore di combattere le discriminazioni e permettere la convivenza civile».
La conoscenza statistica sulla diffusione del razzismo nelle nostre società è insufficiente?
«Esistono molti studi che ne parlano. Sappiamo che il razzismo pesa nell’accesso all’occupazione, all’alloggio e le varie forme di discriminazione rappresentano un problema. Quello che non sappiamo, invece, è la tendenza.
Non abbiamo strumenti per misurare l’evoluzione, osservarla a un livello più approfondito, settore per settore, anno dopo anno. È come se volessimo sconfiggere la disoccupazione senza avere un tasso ufficiale di senza lavoro. Si parla molto di razzismo, l’immigrazione è un tema strumentalizzato dalle destre nazionaliste e anti-migranti, che conoscete bene in Italia. Il dibattito è molto emotivo, quasi isterico. Sono convinto che avere cifre e dati, permetterebbe di organizzare meglio la discussione».
Propone un osservatorio nazionale sulla discriminazione.
Non esiste già qualcosa di simile?
«Le indagini sulla discriminazione nel lavoro, per esempio, sono condotte con l’invio di migliaia di curriculum e sono molto costose.
Se si volesse davvero avere dati comparabili da un anno all’altro servirebbe uno stanziamento di diversi milioni di euro. Per il momento, nessun organismopubblico dispone delle risorse sufficienti. Inoltre credo sia necessario un osservatorio ufficiale per oggettivare i dati. Il tasso di disoccupazione in Francia è comunicato dall’Insee, l’istituto statistico nazionale. Non sarebbe la stessa cosa se ogni partito politico, sindacato o qualsiasi ricercatore si mettesse a dare il proprio tasso di disoccupazione».
Vuole inventare un «nuovo modello europeo» per vincere le discriminazioni. Diverso da quello americano?
«Le soluzioni in Europa non possono essere quelle concepite negli Stati Uniti dove esiste un inquadramento delle differenze etno-razziali molto rigido, concepito inizialmente per creare il sistema di discriminazione. La realtà in Europa è diversa. C’è una statistica eloquente: se si prendono tutte le persone che oggi in Francia hanno almeno un nonno nato in Nord Africa, l’85 per cento ha almeno un altro nonno con altre origini. Sulle persone di ascendenza italiana o spagnola questa diversità è ancora più pronunciata. In confronto, negli Stati Uniti per le popolazioni di colore questo dato non è nemmeno al dieci per cento e fino agli anni Sessanta era al due per cento».
Cosa significa?
«Intanto che, rispetto a tanti pregiudizi, c’è un buon livello di accettazione delle differenze inEuropa, con un’integrazione già in corso. Non è però un motivo per ignorare le discriminazioni legate a queste origini. Ci sono ancora settori o zone in cui un cognome arabo o di origine africana impedisce di trovare lavoro, ottenere una promozione professionale. Dobbiamo darci i mezzi per misurare questa discriminazione senza ingabbiare le identità di ogni persona. Nei censimenti e sondaggi propongo di non si chiedere alle persone “Sei bianco o nero?” ma piuttosto: “Tra i vostri genitori o nonni, ci sono persone nate in Nord Africa, nell’Africa sub-sahariana?”.
Attraverso domande come questa capiremo che le origini miste sono una larga maggioranza nellapopolazione. Io ho origini italiane, mia moglie ha origini spagnole».
Perché finora non ci sono queste statistiche?
«In Francia, ricercatori e cittadini che dovrebbero lavorare insieme per combattere tutte le forme di disuguaglianza sono divisi. Questo libro è in parte la risposta a una controversia che ha avuto luogo l’anno scorso in Francia a proposito del saggio di due ricercatori di scienze sociali che mi piacciono molto, Stéphane Beaud e Gérard Noiriel (Race et sciences sociales, ndr). Secondo loro parliamo troppo di discriminazioni razziali e non abbastanza di diseguaglianze sociali. Sono in parte d’accordo e inizio dicendo che è necessarioridurre le diseguaglianze sociali in generale. A volte ci sono discorsi antidiscriminatori che in realtà sono solo un modo per mettersi la coscienza a posto facendo promuovere alcune persone di origine straniera, mantenendo intanto enormi diseguaglianze sociali tra ricchi e poveri».
Quindi giusto rimanere prudenti?
«Sì ma nel libro cerco di mostrare che è possibile conciliare i punti di vista. Vale a dire proporre un programma molto ambizioso sulla riduzione delle diseguaglianze tra le classi sociali in generale, indipendentemente dalle loro origini, e allo stesso tempo prendere sul serio la questione delle ulteriori diseguaglianze legate alla discriminazione, senza cadere nelle categorie schematiche del modello anglosassone. Vengo da una visione più classista, basata sulle diseguaglianze tra le classi sociali.
Quando parlo di ridistribuire la ricchezza, di creare una donazione di eredità minima per tutti all’età di 25 anni, faccio una politica di tipo universalistico.
Non mi soffermo sulle origini di ogni persona. Ma, al stesso tempo, penso che dobbiamo essere molto ambiziosi sulla dimensione antidiscriminatoria. Troppo spesso il dibattito anche a sinistra rimane generico. Ci si divide per sapere se le diseguaglianze razziali sono più importanti di quelle sociali o viceversa. Non c’è bisogno di fare una gerarchia, possiamo lottare contro entrambe in modo altrettanto forte e proattivo».