il Fatto Quotidiano, 10 gennaio 2023
Ritratto al veleno di Roberto Calderoli
Nato citrullo di Padania, Roberto Calderoli s’è fatto col tempo statista. Portento paragonabile a quello dell’Evoluzione che ha trasformato il pitecantropo di Giava che governava il fuoco, nel ragioniere con la Panda che oggi vive lungo le pianure del Raccordo Anulare. Per farlo, la Natura ha impiegato mezzo milione di anni. Nel caso di Calderoli ne sono bastati 30 di legislature, tre ministeri, due matrimoni, il primo di rito celtico con il braciere, il sidro e Marco Formentini, all’epoca druido di Milano. Il secondo con una principessa degli spumanti, dinastia Gancia, con la sola scenografia di quattro cani lupo fuori dalla trattoria stellata di Cherasco, dove arrostivano il pesce e le rispettive promesse sentimentali.
Ai tempi del Dio Po, l’antico Calderoli credeva per davvero alla Sacra Ampolla e al suo sacerdote in canottiera, il Bossi Umberto da Gemonio. Oggi che si è emancipato in tutto, tranne che nel vestire braghe e cravatte verdi, discetta di valori costituzionali e di statuti delle Regioni italiane alle quali – con la proposta della Riforma delle autonomie differenziate – vorrebbe imprimere il tatuaggio della piccola secessione, dopo avere abbandonato quella grande, suddividendo in parti diseguali il bottino fiscale raccolto ogni anno da Roma ladrona, un migliaio di miliardi di euro all’ingrosso. Da consegnare alle singole Regioni secondo la loro spesa storica. Il che vorrebbe dire consolidare i privilegi delle più ricche a scapito delle più povere con perequazioni ancora da studiare.
L’importante è farla in fretta, visto che i governatori di Veneto e Lombardia scalpitano insieme con il loro cospicuo elettorato legaiolo. Indizio di un interesse non del tutto compatibile con il dovere costituzionale dell’unità e dell’uguaglianza dei cittadini, ma chi se ne importa: il vero scalpo di guerra preteso dalla Lega declinante di Matteo Salvini è proprio la diseguaglianza del Nord dai pelandroni del Sud, perennemente assistiti.
Avventurosa è stata la sua evoluzione. Calderoli nasce nel mese (del pesce) d’aprile, anno 1956 a Bergamo, provincia di Bergamo, primo slogan: “Bergamo nazione, tutto il resto Meridione”. Nasce predestinato a un’altra storia professionale: figlio, nipote e fratello di odontotecnici e dentisti. Si appassiona anche lui ai molari cariati dalla masticazione. E mentre sfascia automobili nei rally d’Appennino, nel 1982 si laurea chirurgo maxillofacciale.
L’incontro fatale con Bossi – “un tizio che veniva da Varese e diceva: passerò alla Storia” – avviene durante la festa più adatta, quella del Carnevale. La maschera secessionista gli va a pennello, anche lui predica la supremazia della “razza padana, razza pura, razza eletta”. Lo fa nel primo comizio della sua vita in bergamasco stretto. Gli credono. Entra in Consiglio comunale nel 1990. Due anni dopo è in Parlamento.
L’armamentario che maneggia è sempre il peggiore: rastrellamento ed espulsione degli albanesi, castrazione con forbici per i pedofili, fuoco sugli scafisti. Ce l’ha con “i nazisti rossi”. Con “la civiltà gay che sta trasformando la Padania in un ricettacolo di culattoni”. Ma specialmente con Berlusconi, “il mafioso di Arcore”, “il re dei debiti”, “l’uomo della P2”, “l’assassino dell’economia italiana”.
Ma quando Berlusconi ripiana i debiti della Lega, cambia musica. Con tutta la nomenclatura entra nella stanza dei bottoni. Bossi diventa ministro delle Riforme, anno 2001, semplificate ogni anno nei raduni di Pontida e Venezia con l’ostensione del Tricolore: “Lo uso per pulirmi il culo!”. Calderoli ascende tra i velluti dei senatori e si mette a studiare le geometrie dei regolamenti, come fossero le arcate dentali. Alle quali imprime la sua nuova scienza che consiste nel creare danni parlamentari ove possibile, moltiplicare gli inciampi, fino al capolavoro degli 82 milioni di emendamenti presentati per rallentare la discussione sulla legge elettorale, il cosiddetto Italicum: “Ho un programmino che da un testo base è in grado di comporre centinaia di migliaia di varianti”.
A forza di applausi e risate dal circo mediatico, si avventura con bermuda, polenta e grappa in una baita di Lorenzago del Cadore a scrivere in latinorum la Riforma Federalista, anno 2004, bruciata a stretto giro da un apposito referendum. Non contento si incarica di redigere la nuova legge elettorale, battezzandola da sé “una porcata”, in una celebre intervista a Matrix, che tra veti e contro-veti è rimasta intoccata per tre legislature, fino a quando la Corte costituzionale l’ha destinata alle mandibole della trita-documenti.
Di guai ne ha combinati parecchi. Celebre la sua passeggiata con maialino su un terreno che il Comune di Lodi voleva destinare alla costruzione di una moschea, rendendolo infetto. Addirittura memorabile la maglietta anti Maometto che in veste ministeriale esibì al Tg1, scatenando fuochi di guerriglia in Libia. Provò a rimediare con le scuse. Disse al Corriere che non aveva dormito “per una intera notte”, significando di avere dormito benissimo tutte le altre, pazienza per gli undici morti durante gli scontri davanti al nostro consolato di Bengasi.
Una mezza dozzina di volte ha avuto grattacapi dalla magistratura. A Verona per le Guardie Padane. A Milano per gli scontri in via Bellerio, sede della Lega. A Lodi per il fallimento della banca leghista, la Credieuronord e i finanziamenti ricevuto dalla Popolare di Lodi, la banca di Giuseppe Fiorani. A Napoli, quando gli uomini del Capitano Ultimo indagarono sui conti della Lega, i diamanti comprati in Tanzania dal tesoriere Francesco Belsito, i soldi girati in nero a “The Family”, cioè a Bossi, i 49 milioni di euro incassati con i rimborsi elettorali e spariti nel nulla. E poi a Bergamo per avere insultato la ministra di colore Cécile Kyenge: “Amo, com’è noto, gli animali, gli orsi, i lupi, ma quando vedo la ministra non posso non pensare alle sembianze di un orango”: 18 mesi di condanna per diffamazione con l’aggravante dell’odio razziale.
“Non avrei scommesso un euro su di me”, dichiarò quando diventò per la prima volta ministro, anno 2004. Da allora è ancora lì. A dimostrazione che al netto del suo portento evolutivo, i veri citrulli siamo noi.