il Giornale, 10 gennaio 2023
Gogol’ folle di Cristo
Era ossessionato dal fuoco. Tutti riconoscevano in Nikolaj Gogol’ (1852-1931) l’autentico iniziatore della letteratura russa moderna. Lui voleva mandarla al rogo, palinsesto di menzogne, icona di ipocrisie. Nella primavera del 1845, il primo incendio. Gogol’ è afflitto da malinconia bituminosa, uno stato che precede l’estasi. Viaggia molto. A Parigi va a Messa ogni giorno, nella chiesa di rito ortodosso. Da tempo i suoi libri capitali sono L’imitazione di Cristo di Tommaso da Kempis e i testi dei Padri della Chiesa; tra tutti predilige Giovanni Climaco. Comincia a scrivere un libro sulla divina liturgia. Accetta le cure ad Amburgo. Tre anni prima era uscito il primo volume delle Anime morte, il capolavoro, il grande poema in prosa sulla Russia, «la mia impresa salvifica». Preda di una delle sue crisi lancinanti, Gogol’ brucia quanto ha scritto del secondo volume, «il risultato di cinque anni di lavoro, portato avanti con sforzo morboso». Da allora queste «Anime morte da me distrutte» diventano un’opera che si affianca all’altra, alle Anime morte pubblicate, fino a divorarla, a sostituirla. È con le «Anime morte da me distrutte», a conti fatti, che nasce la letteratura russa moderna. Anzi, è lì che nasce la letteratura occidentale: stretta tra personalismo e personalità, gesto estetico e atto etico, sacro e dissacrante, altare e tribunale, legge e grazia, mondano ed ultramondano, mondo e immondo, primato dell’io e privilegio dell’obbedienza. Le «Anime morte da me distrutte» proseguono il gesto iniziatico di Virgilio che ordinò di bruciare l’Eneide: una «decisione tanto disperata», arguisce Hermann Broch, su cui «doveva avere influito l’intero contenuto metafisico e storico della sua epoca» e profetizzano quello di Franz Kafka, che chiede a Max Brod di incenerire i suoi libri. A differenza degli altri scrittori piromani, Gogol’ è riuscito nel suo intento: le «Anime morte da me distrutte» sono un monito e un compito. Lo scrittore, per realizzarsi, deve distruggersi. «L’ho bruciato, il secondo tomo delle Anime morte, perché così bisognava... Bisognava prima morire, per poter resuscitare», scrive in Passi scelti dalla corrispondenza con gli amici, libro cupo e crudele, curiale e coriaceo, incompreso, con l’ambizione di rovesciare il sistema letterario russo, anteponendo la morale e l’arte della sprezzatura alla lascivia degli intellettuali progressisti.
Il rogo fu replicato, in forma definitiva, nella notte tra l’11 e il 12 febbraio del 1852, quando Gogol’ brucia l’ennesima riscrittura delle Anime morte assieme ad altri testi. Avrebbe voluto bruciare se stesso. Da quel giorno, Gogol’ rifiuta il cibo, prende a pregare, si esilia dagli amici. Muore poco dopo, il 21 febbraio: nelle ultime parole, registrate dal medico, implora che gli sia data «la scala, presto!». In un quadro dall’efficacia shakespeariana, il grande pittore russo Il’ja Repin, il ritrattista di Lev Tolstoj, si immagina Gogol’ mentre brucia il secondo volume delle Anime morte: il viso dello scrittore sembra quello di un pupazzo, è giallo e verde, stravolto, la mania lo ha reso mostruoso. Domandarsi se le «Anime morte da me distrutte» siano o meno il più grande libro impubblicato della storia della letteratura è da pavidi. Nel gesto assurdo o ironicamente esatto di Gogol’ giace il mistero della creazione, del rapporto tra l’uomo e Dio, del legame tra anima e libro, un mistero ignifugo a ogni facile risposta. E se la scrittura non fosse che un rogo?; e se nel distruggere si celi una Genesi? Cosa significa, d’altronde, scrivere con caratteri di fuoco? Secondo Jií Langer, poeta, amico di Kafka, «il segreto più eccelso» della Torah «è sommerso nel mare bianco che circonda da tutte le parti le lettere. Nessuno sa decifrarlo, nessuno lo penetra». A essere sacro non è il testo fuorviante ma l’anti-testo, ciò che lo accerchia, «il segreto del bianco». Dio è al di là del verbo, parla nel silenzio: nel bianco formicola la promessa. Secondo la mistica di Gogol’, il senso dell’opera cova nella cenere, il romanzo si rivela nella via del fuoco.
Gli «scritti spirituali» di Gogol’, redatti in carte sparse dal 1843 alla sua morte, finora inediti, raccolti da Lucio Coco come Non siate anime morte... (Aragno, pagg. 148, euro 15), illuminano la sequela evangelica, patto che si fa patibolo dello scrittore. Non si devono cercare paragrafi eccentrici, frasi originali, pensieri provocatori o spiazzanti in questi testi: l’originalità, vanità romantica che diventa moda borghese, non ha a che fare con l’origine. L’artista non è tale perché inventa, ma perché si perfeziona ripetendo: come il pittore di icone, come gli anonimi pintori del Duecento, le officine di Bisanzio. «Principio, radice e fondamento di tutto è l’amore per Dio. Ma per noi questo principio è alla fine e noi amiamo tutto ciò che vi è nel mondo più di Dio», scrive Gogol’. E poi: «Una sola è la via d’uscita dalla società nell’attuale situazione: il Vangelo»; e poi: «L’abbattimento è il più grande dei peccati e quindi, quando solo una sua ombra ci raggiunge, dobbiamo rivolgerci a Dio e pregare con tutte le nostre forze».
In una preghiera scritta in previsione del pellegrinaggio a Gerusalemme, Gogol’ implora di essere libero dallo «spirito di agitazione, uno spirito di pensieri ribelli e inquieti». Non sarà accontentato. Gogol’ è il primate degli scrittori che vogliono ergersi, dopo un percorso di patimenti, a maestri di vita. Seguendo il suo esempio, Lev Tolstoj rifiuta gli sfarzi cittadini, la corte degli scrittori alla moda, si dà alla vita dei campi, al cristianesimo radicale, a una scrittura ecumenica. Come lui, Fëdor Dostoevskij imbraccia l’ortodossia più austera e forgia personaggi: l’uomo del sottosuolo, l’uomo ridicolo, il principe Myskin, lo starec Zosima, Dmitrj Karamazov che con il loro estremismo, la vertigine di una bontà maniaca, mettono in crisi la visione sociale del tempo, ribaltano il sistema del potere terreno in virtù delle visioni superne. Come lui, Boris Pasternak abiura i primi testi, gonfi di fatuo lirismo, e crede, scrivendo Il dottor Zivago, di aver scoperto l’urticante segreto della vita. Come lui, i grandi poeti russi, da Andrej Belyj a Velimir Chlebnikov e Aleksandr Dobroljubov che «si diede a vagabondare come un umile pellegrino... e infine fondò una sua setta, che perseguiva l’inerzia e il nichilismo mistico» (Angelo Maria Ripellino), credono nella scrittura come palingenesi dello spirito.
Per lo scrittore russo, non c’è differenza tra creare un romanzo e fondare un monastero, perché ogni libro è libro sacro. Per capire ciò che ai nostri occhi è inusitato, insinuazione di demenza, dovremmo studiare le agiografie russe, la storia dei «folli di Cristo», gli jurodivye, quella di Avraamij di Smolensk, di Nil di Sora, di Tichon di Zadnosk, di Serafim di Sarov. «La caratteristica spirituale fondamentale del popolo russo consiste in un grande distacco dal mondo e dai suoi beni... In questo Paese dagli orizzonti sconfinati, dalle proporzioni fuori misura, dal cielo inclemente, aperto a tutte le invasioni, facilmente l’uomo diventa consapevole della propria debolezza fisica e del carattere caduco di tutte le sue opere», spiega Ivan Kologrivov in un libro esemplare, Santi russi (La casa di Matriona, 1985). «Abbi misericordia di me, peccatore, perdonami, Signore!», scrive Gogol’, alcuni giorni prima di morire, ripetendo l’antica preghiera del cuore, «Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me», quella che il pellegrino russo incessantemente ripete. Non serve altro, ormai, che stare nei santi tracciati di Cristo, sul suo braccio messo a maggese.
I funerali di Gogol’ si svolsero a Mosca, presso il cimitero di San Danilo. Camelie coprivano la bara. Avevano cinto il cranio del cadavere con una corona di alloro. «Tutti volevano inchinarsi dinanzi al defunto, baciargli la mano», ricorda la contessa Sal’jas. Gogol’, lo scrittore che aveva battezzato nel fuoco la propria opera. Nel suo testamento, anni prima, aveva pregato di non piangerlo.