il Giornale, 10 gennaio 2023
Un buco da 132 miliardi per la Banca nazionale svizzera
Un buco così, in 126 anni di storia, non s’era mai visto all’1 di Bundesplatz. Un bilancio da gruviera, con il caglio di perdite per 132 miliardi di franchi svizzeri (poco meno di 140 miliardi di euro), ha infatti macchiato indelebilmente l’annus horribilis 2022 della Banca nazionale svizzera (Bns). Confederazione e Cantoni piangono così la dipartita dei cari dividendi, che lo scorso anno ne avevano ingrossato le casse per sei miliardi, a certificare un epilogo senza lieto fine già scontato nei mesi scorsi. Da metà anno, del resto, lì a Berna nessuno credeva più nel miracolo capace di resuscitare i conti. La piega ribassista presa dalle Borse internazionali era una condanna già scritta, un avviso di sfratto dagli utili per chi, da anni, assomiglia più a un hedge fund che a una banca centrale. Se nel periodo dell’allentamento quantitativo Bce e Fed hanno comprato a mani basse bond sovrani per contrastare le varie crisi, l’istituto elvetico si è legato a doppio filo coi mercati azionari. Comprando vagonate di titoli, come se non ci fosse un domani, per temperare il rafforzamento della valuta nazionale. Anche se più di recente, per combattere un’inflazione che si aggira attorno al 3%, il presidente Thomas Jordan ha dato l’ordine di cominciare a ridurre le riserve valutarie e i tassi d’interesse sono stati alzati tre volte lo scorso anno. Il bilancio non è però cambiato. Soprattutto nella parte che denuncia un rosso sulle posizioni in valuta estera di circa 131 miliardi di franchi, neppure lontanamente controbilanciato dalla plusvalenza di 400 milioni sulle disponibilità in oro. La Bns ha insomma pagato a caro prezzo l’esposizione azionaria in dollari e quello strizzare l’occhio alle FAANG, le regine decadute di Wall Street. In base agli ultimi dati resi noti dalla Sec (l’omologa Usa della nostra Consob) risalenti al maggio 2021, Berna denunciava di avere in portafoglio la bellezza di 2.500 titoli della Corporate America e di possedere un controvalore di azioni Apple pari a 8,5 miliardi di dollari. Non solo: poco più di sei miliardi erano investiti in Microsoft, 5,2 miliardi in Amazon, 2,5 in Facebook, quasi due nella Tesla di Elon Musk e quasi un miliardo in Netflix. Giusto per dare una misura di come investimenti monstre nella Borsa Usa possano aver impattato sui conti di Bns, è sufficiente ricordare che lo scorso anno il Dow Jones è sceso del 9,2% e che il Nasdaq è collassato di quasi il 34%, travolto dai 1.000 miliardi di capitalizzazione persi dalla Mela morsicata e dal 40% del valore lasciato sul terreno dai titoli di Jeff Bezos. Un’infatuazione di lunga data è diventata così una vera e propria liaison dangereuse con la parabola discendente del settore hi-tech, il più sopravvalutato e perciò il più tartassato non appena Jerome Powell ha dato la stura al maggior inasprimento dei Fed Funds dai tempi di Paul Volcker. Per la Bns, una coltellata al cuore da una consorella. Eppure, anche nelle valli svizzere dovrebbe valere il vecchio proverbio che «chi è causa del suo mal».