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 2023  gennaio 09 Lunedì calendario

OH MIO DIO, LAUDADIO! – RACCONTI E RIVELAZIONI DELLO STORICO INVIATO DI “STRISCIA LA NOTIZIA”, MAX LAUDADIO – “RICORDO ANCORA QUANDO UNA TRUFFATRICE MI MENÒ PER 47 MINUTI DI FILA. HO INIZIATO A ‘LE IENE’ FINGENDO DI PROSTITUIRMI SU UN SITO INTERNET DI ESCORT” – LA SCOPERTA DELLA FEDE: “NON ERO SOLO ATEO, ERO PROPRIO IN RIVOLTA. POI UN PRETE MI HA RAGALATO UN LIBRO. HO AVUTO UN'ILLUMINAZIONE. CERTO, NELL'AMBIENTE DELLA TV MI PRENDONO UN PO' PER IL CULO, MI CONSIDERANO UN MONACO…” – VIDEO -

Salire in auto i tornanti di Cuasso al Monte - provincia di Varese, poco più in là è già Svizzera - è poesia. La luna è lassù sulle cime, «e vedrai che tra poco si infiammano tutte di rosso, al tramonto», indica Max Laudadio offrendoci un vin brûlé. Lo raggiungiamo alle panchine di una pista da pattinaggio sul ghiaccio tra alberi carichi di lucine: l'ha ordinata lui dall'estero, «completamente ecologica», per l'associazione "On", una delle mille idee dell'inviato di Striscia la Notizia, per migliorare la vivibilità dei boschi di queste Valli.

«Da 15 anni abito qui, in una baita in mezzo alla natura e con una vista clamorosa sulle montagne», racconta lui che di anni ne ha 51. Origini pistoiesi, con la moglie si è innamorato di questi luoghi dopo il consiglio del pediatra per la figlia, Bianca, che si ammalava troppo spesso nell'aria di Milano.

Qui la tranquillità, ma per lavoro sei sempre in viaggio. Spesso c'è chi per le tue inchieste si arrabbia, qualcuno arriva ad aggredirti. Quando è iniziata con Striscia la Notizia? «Vent'anni fa, dopo tre alle Iene. Prima ho fatto tanti mestieri, sempre con l'obiettivo di lavorare nel mondo dello spettacolo. Sono stato "veejay" a Match Music, che era l'alternativa di Mtv. E poi autore a Disney Channel. Alle Iene sono approdato con un'inchiesta durata sei mesi: per guadagnare qualche soldo facevo pure il fotomodello, e mi è venuta l'idea di prostituirmi per finta su un noto sito internet di escort, filmando tutto con telecamera nascosta».

Rischioso... «Forse, un po', ma avevo un'altra età e una certa incoscienza, e poi mi sottraevo un momento prima di salire in camera. Quando la mandarono in onda si era scoperto che alcuni calciatori facevano festini con ragazze in vendita su quel sito. L'inchiesta fece "rumore"...».

Tu cosa tifi? «Sempre stato doriano, ma a un certo punto il calcio l'ho proprio abbandonato. Giocavo a buon livello, avevo anche fatto le selezioni per la Nazionale under 18».

Ma...? «Ma era il sogno di mio padre, non il mio. Un giorno l'ho guardato e gli ho detto: parto, vado in un villaggio a fare l'animatore».

Come l'ha presa? «Si è incazzato moltissimo. Ma abbiamo avuto tutto il tempo di recuperare. Papà è andato in cielo un paio d'anni fa. È sempre stato il mio mito, solo negli ultimi anni avevo scoperto che qualche difetto lo aveva pure lui».

Com'è lavorare con Davide Parenti e con Antonio Ricci, due mostri sacri della tv? «Sono entrambi tostissimi. Parenti è stato per me l'inizio a Mediaset, il primo autore importante. Con Ricci... beh, ho sempre un po' il timore che risulti piaggeria, ma dico davvero quando racconto che ha la caratteristica di dare una fiducia totale, è come un padre. Controlla tutto, ovviamente, per un programma che fa ascolti così importanti come Striscia. Ma si fida, e ha grande attenzione. Mi ha permesso di seguire i miei interessi. Oltre ad avere spesso idee geniali».

Ha creato per te le vesti del Cicalotto. «Per anni mi sono rifiutato di interpretare quel personaggio. Ma lui mi ha "fregato" convincendomi che sarebbe stata un'interpretazione da attore, e per me che avevo fatto scuola di teatro era l'idea giusta. Sono i panni che indosso ancora oggi quando ci sono inchieste sui truffatori. Il Cicalotto può dire quel che vuole, cicaleggia, a differenza dell'inviato di Striscia che è più imparziale e lascia allo spettatore il decidere se qualcuno ha torto o ragione».

Oggi ti diverti, a indossare quel costume? «Il divertimento è iniziato quasi da subito, devo dir la verità. Ricordo ancora quando una truffatrice mi menò per 47 minuti di fila. Roba da morir dal ridere, perché non picchiava Laudadio ma questo pupazzo vestito di verde e giallo. Per fortuna non erano botte che facevano male. È stato divertente anche tornare a casa un giorno con mia figlia ancora piccola in lacrime, che mi diceva di smettere di vestirmi da Cicalotto perché si vergognava di me e non voleva andare a scuola».

Come l'hai convinta? «Le ho spiegato che ero un po' come il Gabibbo, con la differenza che facevo un lavoro serio di inchiesta. Ma non c'è stato molto da fare: mi ha gridato che l'unica differenza con il Gabibbo era che io ci mettevo la faccia».

(Ci interrompono, con gentilezza, per chiedere un selfie, e un uomo sulla settantina gli dice: «Si vede che sei un puro, è cosa rara al giorno d'oggi»). Dai, questi li hai pagati per far bella figura per questa intervista. (Ride) «Ho iniziato da un po' a credere nella bontà delle persone».

La tua è anche una storia di un profondo cambiamento personale. «Quando si fanno lavori come il mio, ci sono due categorie di persone. Chi capisce che serve crescere interiormente, e chi si perde nell'oblio del niente, del successo e della ricchezza. Non sto a farti i nomi, ce ne sono tantissimi. E spesso anche lo spettatore se ne accorge».

Hai corso questo rischio? «A un certo punto avevo tutto: il lavoro che avevo sempre desiderato fare, un matrimonio felice, tre figli: una biologica e due ragazzi che abbiamo accolto in casa nostra, che oggi hanno 27 e 37 anni. Vengono dall'Albania e dal Niger. E però non ero felice».

Come te lo spieghi? «Oggi per farla semplice la racconto così: mi sono reso conto che la vita è come una scala mobile. Vale per qualsiasi lavoro: c'è sempre un obiettivo davanti da raggiungere. Ma sul gradino con scritto "felicità" rischiamo di non appoggiare mai il piede. Né i soldi, né la fama me l'avevano regalata».

E poi? «Poi è successo che mia figlia frequentava l'oratorio e il prete - don Silvano Lucioni - si era messo in testa che io dovevo entrare in Chiesa, ma non mi passava neanche dall'anticamera del cervello. Non ero semplicemente ateo, ero proprio in rivolta, a tratti persino violenta. Allora lui che ha fatto? Mi ha regalato un libro: Per una Chiesa scalza, di Ernesto Olivero».

Il fondatore del Sermig di Torino, grande opera missionaria. «Ho iniziato quel libro una sera per rispetto per il prete - di mio leggo parecchio - e non sono riuscito a smettere finché non era finito. Racconta di una Chiesa priva di orpelli e vestiti dorati, di persone che si dedicano agli altri. Al mattino ho chiamato la mia assistente e le ho detto che quel giorno non sarei andato al lavoro.

Son partito per Torino da solo, e arrivato all'Arsenale della pace ho bussato e mi sono messo a piangere. Ho chiesto di vedere Olivero, mi han detto che era appena atterrato dalla Terra Santa e poco dopo mi ha accolto. La prima cosa che mi ha detto è "ti voglio bene"».

Da lì la conversione? «Fu più quella notte che don Silvano mi convinse, o costrinse, a fare l'adorazione eucaristica. Mi ero persino dimenticato di averlo promesso: mi ero segnato per le 3 del mattino. Suonò la sveglia e scesi in valle in una notte con la bufera di neve, incazzato nero, ma poi entrato in Chiesa l'illuminazione.

Mi sono messo in ginocchio e non mi sono alzato fino al mattino. Da lì, giuro, è iniziata una serie impressionante di quelle che io chiamo "dioincidenze"».

Cosa è cambiato? «Ero un megalomane, egocentrico ed esibizionista. Ho chiesto il dono dell'umiltà. E sono partito: tre mesi in missione. Prima ad Haiti in un orfanotrofio, poi in Giordania in un centro disabili mussulmani gestito da tre suore, e poi in Benin in un ospedale piccolissimo che serve quattro Stati».

A fare che?  «Principalmente a portare sorrisi con le mie competenze. Ho scoperto lì che la felicità esiste solo nel dono agli altri, se una cosa la fai per gli altri».

Uno sforzo o una vocazione? «Quello stato di benessere che ho vissuto poi per due anni purtroppo non dura per sempre, ma nella lotta della vita è per me stato decisivo don Bosco, una sua frase. A un ragazzo che gli chiedeva come fare a diventare santo, cioè una brava persona in vita, rispose che occorreva rispettare tre parole. Guarda le ho tatuate qui (alza la manica del giaccone, sono in corsivo sull'avambraccio, ndr): responsabilità, misericordia e allegria. La perfezione è impossibile all'uomo, ma cerco di fare il massimo che posso. Così racconto a tutti cosa sia per me la fede».

Nell'ambiente della televisione come hanno accolto questo cambiamento? «Non è cambiato molto rispetto a prima, a esser diversa è stata la mia disponibilità verso gli altri, e questo ha regalato parecchi frutti. Sono contrario a ogni estremismo. Certo, mi prendono sempre un po' per il culo eh: c'è chi pensa che vivo qui in montagna come un monaco in preghiera, ma lo senti anche tu il profumo della salamella, no?».