il Giornale, 9 gennaio 2023
Intervista a Antonio Locati, l’uomo delle sorprese Mulino Bianco
Per i bambini degli anni Ottanta la campanella dell’intervallo voleva dire due cose: tirare fuori dallo zaino la crostatina del Mulino Bianco (intatta o del tutto sbriciolata era un terno al lotto quotidiano) e scambiarsi le sorpresine. Sì, quelle, assolutamente generazionali, nelle scatoline gialle e marroni. Quelle che, a ripensarci ora, ci ricordano quanto eravamo più semplici. Pazienza se le gommine a forma di tortina non cancellavano un granché. Pazienza se nessuno viveva davvero nella famiglia del Mulino Bianco, quella patinata degli spot tv, con le brioscine fumanti pronte in tavola ogni mattina. Avevamo comunque, nella tasca del grembiule, un mondo di oggettini da scambiare. E piacevano a tutti: al bambino che arrivava a scuola con l’autista e le scarpe di vernice e a quello che portava le stesse Superga lise per tutto l’anno. L’uomo delle sorprese si chiama Antonio Locati, leva 1958, titolare della Locati spa di Lonate Pozzolo, provincia di Varese. È lui il produttore delle scatoline magiche che hanno segnato un decennio e che tuttora vengono vendute dai collezionisti vintage su ebay. Come cominciò questa avventura? «A dire il vero, il primo uomo delle sorprese fu mio padre, con la pubblicitaria A. Locati e C. di Lonate Pozzolo. Negli anni Sessanta aveva un ingrosso di giocattoli. Aveva dei rappresentanti che uscivano nel periodo natalizio per vendere ai Cral delle grosse aziende. In una di queste uscite conobbe Pavesi, che gli chiese giocattoli piccoli e poco costosi da inserire nei pacchetti della patatine Pai. Realizzò anche la Mucca Carolina per la Invernizzi e Susanna Tuttapanna, il pupazzo gonfiabile dei formaggini confezionati». Cos’erano le prime sorpresine Pai? «Soldatini di plastica. Riproducevano vari eserciti. I bambini impazzirono, stavano a terra ore a simulare battaglie. I soldatini furono infilati in bustine di politene in mezzo alle patatine. Volendo guardare puzzavano anche. Non c’erano materiali idonei, né controlli. Io, all’epoca, avevo sette, otto anni. Ci giocavo sempre, entravo nei magazzini di nascosto e curiosavo ovunque, un paradiso. Ma la mia cosa preferita erano i petardi, gusto del proibito». Poi il gioco diventò un lavoro. «Alle superiori mio padre mi infilò in ditta a fare il garzone. Quando cominciai a occuparmi della parte commerciale, contattai Barilla e iniziò il progetto delle sorpresine. La prima fu il gioco delle pulci, con le pedine di plastica colorate da far saltare. Poi arrivò quello dell’oca in miniatura, con i dadi». Fu la prima volta di una sorpresa nella scatola delle merende? «Sì, fino a quel momento producevamo solo per i sacchetti di patatine e le uova di Pasqua. Decidemmo poi di portare la Pasqua in ogni spesa delle mamme al supermercato. La pensata fu di un dirigente della Barilla che, anziché ideare campagne sconti, decise di lanciare la collezione punti per avere la tazza del Mulino e mettere la scatolina tra le confezioni di merendine. Era l’inizio degli anni Ottanta. All’estero non lo faceva nessuno, a parte Kellogg’s che metteva un regalino nascosto in mezzo ai cereali». E cosa accadde? «Un successo del tutto inaspettato. Ci fu un’impennata di vendite enorme. In un certo periodo i ragazzini si misero pure a spaccare le confezioni di merendine tra gli scaffali dei supermercati per rubare la sorpresa. Il vero boom arrivò con le gommine a forma di brioche. Arrivai a produrne 311 milioni di pezzi». Però, diciamolo, quelle gommine bucavano il foglio. «Non è vero – ride -. Sì, ammetto, è vero. Ma c’è una spiegazione tecnico-commerciale. Le primissime cancellavano molto bene. Poi ci accorgemmo che c’erano dei problemi produttivi non indifferenti e degli odori sgradevoli che dovevamo evitare. In più diventava necessario contenere i costi e cambiammo i materiali. In una riunione, un rappresentante dello staff marketing di Barilla disse che tutto sommato le gomme potevano diventare un oggetto da collezione, visto che non le usava nessun bambino per non consumarle». Da cosa nacque l’idea di usare le scatoline di carta e non più le bustine come per le patatine? «Le scegliemmo perché evocavano le scatole dei fiammiferi di una volta. Evocavano la casa delle mamme, ex bambine degli anni Sessanta che facevano la spesa per i loro figli. Pensi che all’inizio le montavano le massaie della zona attorno all’azienda: venivano a prenderle in ditta e le componevano a casa loro. Poi cambiò tutto: i numeri delle vendite e le normative igieniche non resero più possibile il lavoro a domicilio». Quale fu la parabola delle gommine? «Sparirono di colpo. Accadde che in Inghilterra morì un bimbo per aver ingoiato una gommina profumata a forma di fragola, non delle nostre. Venne votato un decreto che vietò di realizzare le riproduzioni di alimenti e fermammo la produzione. Proseguimmo con altri giochini. Poi a Barilla arrivò Edwin Artzt, americano, della Procter & Gamble. E disse subito: dobbiamo fare alimenti e non giocattoli. Punto». Oggi funzionerebbe il progetto delle sorprese? «La sorpresa a merenda è la soddisfazione immediata di scoprire qualcosa. Ma oggi anche Ferrero, che è il precursore, ha dovuto modificare la strategia. Alla sorpresa di plastica è associata l’inquadratura con il telefonino del QR code e vedi la sorpresina in 3D, calata in un contesto virtuale. I bambini sono meno semplici di allora». Nell’immaginario è rimasto il concetto di famiglia del Mulino Bianco, perfetta. «E del tutto inesistente. La vita non è amore e zucchero, non solo. Non lo era nemmeno allora, ma il prodotto era per la casa, per la famiglia». Lei ha trovato la sua Clementina, come il piccolo Mugnaio del Mulino? «Sì, ma non è bionda con le trecce ed è più minuta di lei. Monica è una ex bambina che giocava con le gommine delle merende. E alle cene, quando dice che sono l’omino del Mulino, tutti cominciano a ricordare, a chiedermi. Erano tutti miei piccoli clienti. Un Natale di tanti anni fa avevo fatto costruire un piccolo mugnaio bianco in porcellana (ce n’erano 12, uno l’aveva Barilla in persona) e glielo regalai. L’ho conquistata così. Ora – per volere di Monica – ho in casa una stanza dedicata alle scatoline da collezione, tutte racchiuse in teche. Clementina in realtà è uguale alla sua creatrice, Grazia Nidasio, illustratrice famosa per il personaggio di Stefi, fumetto del Corriere dei Piccoli». Un decennio intenso quello delle gommine. In un periodo in cui il mercato cambiò velocemente. «Dicevo che partimmo con le massaie di Magnago per montare le scatole. Ecco, poi cambiò tutto. A cominciare dai nostri numeri. A fine anni Ottanta dovemmo sostenere le richieste del mercato che per noi era diventato mondiale e, a causa della concorrenza con la Cina, non eravamo più in grado di realizzare i prodotti in Italia: il mercato richiedeva prodotti dipinti a mano e da noi era impossibile. Quindi decidemmo di delocalizzare, prima in Bulgaria, poi in Indonesia e poi ancora nelle Filippine, dove abbiamo prodotto per cinque anni con 1.146 dipendenti. Poi, crisi politiche laggiù ci costrinsero a migrare definitivamente in Cina». E dopo l’epoca Barilla? «Ci spostammo anche sull’editoria, con De Agostini, e realizzammo non più sorprese ma oggetti da costruire pezzo per pezzo, da collezionare. Più grandi, più costosi. Penso alle parti del corpo umano, allegate ai libri, penso ai dinosauri. Lasciammo intatto, anche in questo progetto, il gusto dell’attesa del bambino. E quello è impagabile e immutabile, generazione dopo generazione». Effetto nostalgia? «C’è ancora. Quando, a inizio anni Novanta, smettemmo di produrre le gommine e le scatoline, ci arrivò la richiesta di riprendere la produzione. Ci presentarono una petizione di firme lunghissima: mamme, ragazzini, collezionisti che rivolevano le loro sorprese. Restai spiazzato e, ammetto, la cosa mi fece commuovere. Recentemente un commerciante ha acquistato quasi tutto il mio archivio storico. Vende gli oggetti ai mercatini in tutta Europa. E per anni ho ricevuto le chiamate di persone in cerca del Mulino». Oggi di cosa si occupa? «Mi occupo dell’immobiliare di famiglia e quest’anno sono presidente del Rotary club La Malpensa. Mi piace il confronto con gli imprenditori e gli amici, è sempre molto costruttivo sentirsi utili nel servire. Ma non lavoro più con gli orari di una volta».