il Giornale, 9 gennaio 2023
Come la pizza è diventato un cibo da ricchi
Pizza. C’è forse parola più capace di fare venire l’acquolina in bocca agli otto miliardi di inquilini del condominio chiamato Terra? Che la pizza sia il cibo più popolare del pianeta non lo diciamo noi, lo dice Google quando si digitano le parole most+popular+food+world sul motore di ricerca. Pizza. Pizza. Pizza. Neapolitan. Pepperoni. Sicilian. Margherita.
Da un piatto così universale ci si aspetterebbe tradizione e conservazione, al massimo le sgrammaticature che siamo soliti attribuire alle pizze expat, ricolme di ananassi e altri ingredienti offensivi. E invece la pizza ha dato prova negli ultimi anni di un inaspettata vitalità, diventando il vero cibo del terzo millennio, palestra di sperimentazione e perfino avanguardia, anello di congiunzione tra il tinello e la sala delle cerimonie, tra la cucina familiare e il fine dining. Ma quando è accaduto tutto questo?
QUINDICI ANNI DI RIVOLUZIONE.
Secondo Albert Sapere, gastronomo e ideatore di 50 Top Pizza, la guida che da qualche anno mette in fila le migliori pizzerie d’Italia, d’Europa e del mondo, si può individuare una data della rinascita della pizza ed è il 2008. «Con la crisi economica seguente alla bancarotta di Lehman Brothers un pubblico borghese si è avvicinato alla pizza. Un pubblico che era abituato a buoni ingredienti, a buone birre e a buoni vini e ha iniziato a chiederli ai pizzaioli. E la domanda ha creato l’offerta». Così la pizzeria è diventata un luogo dove l’avanguardia si mangia a costi accessibili, «dove una famiglia di tre persone con 70-80 euro si diverte e può andarci anche due volte a settimana, mentre al ristorante con questa cifra non ti diverti, devi andare in un posto di bassa qualità con prodotti di bassa qualità».
LA CARICA DEI QUARANTENNI
La domanda ha creato l’offerta, ma poi l’offerta ha modellato la domanda grazie a una generazione di pizzaioli oggi più o meno quarantenni che «ha colto questa tendenza e ha voluto fare qualcosa di differente da chi l’aveva preceduta», lavorando da un lato sulla qualità delle farine, sulla tecnica dell’impasto e della sua maturazione; e dall’altro sulla varietà degli ingredienti, ciò che ha trasformato la pizza in un piatto-laboratorio, non solo da condire ma sul quale cucinare. Ecco quindi in Campania Franco Pepe, Francesco Martucci, Ciro Salvo, Francesco Vitagliano; a Roma Gabriele Bonci, Giancarlo Casa, Pier Daniele Seu; nel Veronese (sì, in Veneto) Simone Padoan de I Tigli di San Bonifacio, Renato Bosco di Saporè di San Martino Buonalbergo. Poi l’Abruzzo, la Toscana, la Sicilia. Perfino Milano, la bella addormentata della pizza, ha conosciuto il suo rinascimento, dapprima con le succursali delle grandi insegne napoletane (Sorbillo, Michele), poi con locali pop dai nomi accattivanti e masticabili talora appartenenti a catene o a gruppi (Crocca, Crosta, Lievità, Piz, Giolina, Bioesserì, AM, Vurria, Marghe), infine ospitando vere perle come Denis, la pizza di montagna di Denis Lovatel, e Modus, la pizzeria in stile cilentano di Paolo De Simone.
CAMPANIA SUGLI SCUDI
Che la pizza non sia più solo una realtà campana lo dicono del resto le guide. Oggi nelle prime cinquanta posizioni della lista del 2022 di Top 50 Pizza, «solo» 14 indirizzi sono in Campania (ma 6 dei primi 10 e 10 dei primi 20), mentre le altre 36 insegne sono distribuite in altre 14 regioni: 7 nel Lazio, 6 in Lombardia e in Toscana, 4 in Veneto, 3 in Sicilia, 2 in Puglia e Sardegna, 1 in Piemonte, Liguria, Basilicata, Abruzzo, Calabria ed Emilia-Romagna.
DOPO L’ITALIA GLI STATI UNITI
Non solo Napoli in Italia, non solo Italia nel mondo. Pizza di qualità si può mangiare ormai in ogni angolo del globo, a partire da quegli Stati Uniti dove la pizza è diventata internazionale. Si può affermare senza dubbio che la pizza sia stata dapprima napoletana, poi americana, poi italiana e infine globale. Non è un caso che al primo posto della classifica Top 50 Pizza World ci siano ex aequo Francesco Martucci de I Masanielli di Caserta (che intervistiamo sotto) e Anthony Mangieri di Una Pizza Napoletana a New York. Il primo, nel Paese dell’ortodossia pizzaiola, sulla pizza mette di tutto, letteralmente ci cucina sopra. Il secondo, nel Paese che invece ci ha abituato a fare di tutto con la pizza, la offre spartanamente soltanto margherita, marinara, cosacca e bianca, oltre a pizze speciali a rotazione. Del resto New York è l’«altra» capitale della pizza mondiale, con 4 insegne nelle prime 39 al mondo. E gli Stati Uniti, con 10 pizzerie tra le prime cinquanta, dimostrano di essere una scuola seconda soltanto all’italiana (25 su 50). Le altre 15 pizzerie top al mondo sono in Spagna, Giappone e Thailandia (2) e in Francia, Australia, Cina, Inghilterra, Danimarca, Austria, Belgio, Germania e Argentina (1).
NUOVE STAR CON LA PALA
I pizzaioli sono le nuove star globali, in un’epoca in cui gli chef segnano il passo e in attesa che i bartender prendano a loro volta la scena. Lo dimostra il fatto che l’ultima stagione della serie tv Chef’s Table di David Gelb visibile su Netflix sia stata dedicata alla pizza: sei puntate in cui altrettanti pizzaioli celebri (gli italiani Franco Pepe e Gabriele Bonci, gli americani Chris Bianco, Ann Kim e Sarah Minnick e il giapponese Yoshihiro Imai) sono raccontati con un taglio drammatico che li fa spesso un po’ incongruamente apparire come dei supereroi con la mansione di salvare il mondo a colpi di pala. Forse too much, ma è comunque un segno dei tempi.
NAPOLI CONTRO BRIATORE
Ma in tutto questo, Napoli? È ancora la capitale della pizza? E deve sentirsi orgogliosa o minacciata dalla globalizzazione di un piatto che da 5 anni tondi (è proprio il caso di dire) è patrimonio immateriale dell’umanità? Dal golfo arrivano messaggi contraddittori. Da un lato «Napoli resta la capitale spirituale della pizza, dove si mangia la migliore, il posto a cui tutti guardano», garantisce Sapere. Ed è vero del resto che la scena partenopea ha saputo a sua volta rinnovarsi al di là di ogni aspettativa. Ma ancora oggi rigurgiti di campani/lismo risalgono ogni qual volta l’identità della pizza sembra confondersi in un qualsivoglia esperanto. Ne è dimostrazione la polemica innescata da qualche grande firma della pizzologia napoletana quando l’imprenditore Flavio Briatore, mesi fa, ha preso a vendere le sue Crazy Pizzas nelle sue insegne Dubai-style (ma anche a Roma e a Milano) a prezzi folli. Per tutti ma non per coloro sensibili al lusso dello scontrino: 15 euro una margherita (che da Martucci, numero uno al mondo, sta a meno della metà: 7 euro), 49 una Tartufo (con tartufo nero, si badi) e 65 una Pata Negra con jamón Joselito, la Ferrari dei prosciutti.
LA QUESTIONE DEL PREZZO
Polemiche inutili, stucchevoli, che servono solo a dimostrare l’«appropriazione culturale» ormai ultimata da parte del jet set di un piatto-Cenerentola, nato povero e ormai sedotto dal principe azzurro, che lo ha portato a corte. Interessante semmai il fatto che la gazzarra ormai si alzi soltanto sulla questione del prezzo, un po’ come avviene per un altro vanto gastronomico di Napoli, il caffè. Prodotti per i quali sembra resistere il concetto di prezzo politico, che non deve superare mai un certo livello, che per la margherita potremmo collocare, a Napoli, a cinque euro. Al di sopra è una bestemmia, anzi una jastemma come dicono sul golfo.
Del resto la pizza ha proprio tutto: è facile, veloce, buona, versatile, deliverabile, comprensibile, condivisibile, autenticamente popolare. Deve solo non montarsi la testa.