La Stampa, 9 gennaio 2023
Scrittori misteriosi
La migliore definizione di critica letteraria – e anche la più semplice – è probabilmente quella che Cesare Garboli offriva in Scritti servili, distinguendo tra lo scrittore-scrittore e lo scrittore-lettore (il critico letterario fa evidentemente parte di questa categoria): il primo «lancia le sue parole nello spazio, e queste parole cadono in un luogo sconosciuto», il secondo «va a prendere quelle parole e le riporta a casa, come Vespero le capre, facendole riappartenere al mondo che conosciamo». Le capre sono oggi innumerevoli rispetto al mito greco, e per di più sono spesso fantasmi di capre, storielle scritte benino e tutte eguali, Vespero ha sempre più problemi. Ma continua a fare il suo mestiere di pastore, con passione e spesso competenza. Che cos’è del resto un critico letterario se non un lettore più competente, dotato di un bagaglio di conoscenze tali da potersi confrontare col piacere della lettura e (è un’idea antica, di Vladimir Nabokov) di provare a spiegarlo?
Tutto ciò è stato discusso bene e con intelligenza negli interventi che si sono susseguiti su questo giornale. Resta un interrogativo: c’è un modo di “forzare” un universo dove gli scrittori hanno difficoltà a farsi leggere da un numero sufficiente di lettori, né più né meno di quanto accade ai critici? È un universo per il quale potrebbe valere la teoria del caos, che analizza i sistemi complessi e in larga parte imprevedibili, quella secondo cui il battito d’ali di una farfalla in Brasile potrebbe scatenare un tornado in Texas, immagine divulgata da un fisico americano nel ’72 e ripresa da Jorge Luis Borges. È possibile, e lo dimostra il caso di J. R. Moehringer, scrittore di vaglia che balzò agli onori della fama e dell’attenzione critica quando si seppe che era l’autore della meravigliosa autobiografia del tennista Agassi (e ora ha «firmato» quella del principe Harry, infondendole un notevole valore aggiunto).
Moehringer sfidò il mondo dei lettori e dei critici evitando di apparire, facendo l’oscuro riservatissimo lavoro del ghost-writer, quello che scrive per gli altri e per contratto ed etica professionale è tenuto al segreto. Salvo eccezioni: Peter Benchley, ad esempio, autore dell’acclamatissimo bestseller Lo squalo dal quale fu tratto il film omonimo del 1975, si mise al lavoro solo nel 1971, dopo essere stato il ghost-writer di Lyndon B. Johnson, allora presidente degli Stati Uniti. Molti bestelleristi di lingua inglese non fanno mistero di avere collaboratori efficienti e discreti. Un famoso professionista, Andrew Crofts, sostiene probabilmente a ragione di essere il più pagato e ricercato al mondo in questo genere di lavoro. In altre parole, essere un fantasma è una sfida (o un utilizzo) possibile alla teoria del caos? Forse sì, ma bisogna essere un fantasma di successo.
Lo hanno dimostrato amabilmente Doris Lessing, che si vide respingere dall’editore abituale due romanzi quando li mandò firmandosi Jane Sommers – e non dimentichiamo che per arrivare alla critica bisogna pur pubblicare; e Stephen King, che inventò un altro da sé firmando cinque romanzi come Richard Bachman. Non ebbero particolare risalto e lui, scoperto infine da un astuto libraio, fece morire di cancro il povero pseudonimo rendendo piena oltre che sarcastica confessione.
Firmarsi con uno pseudonimo è in fondo diventare il ghost-writer di se stessi, situazione piacevolissima se per esempio si è ostili all’esposizione mondana o mediatica come E.I. Lonoff in Lo scrittore fantasma (The Ghost Writer) di Philip Roth, che se ne sta rinchiuso in casa e non accetta premi, interviste, visite e inviti, «come se associare il suo viso alla sua opera – scrive Roth – fosse una ridicola irrilevanza». Ma Lonoff è autore venerato. L’apprendista fantasma, invece, si mette in gara con una folla di altri sconosciuti esordienti.
Partita persa? No, qualcuno ce la fa. Il caso della nostra Elena Ferrante ne è una dimostrazione planetaria: quando esordisce con L’amore molesto, nel ’92, riceve un’adeguata attenzione (premi e critica, oltre alla trasposizione cinematografica), e subito si crea un’enorme curiosità, una volta capito che l’autrice si firma con uno pseudonimo, per quanto riguarda la sua identità «vera»; il che porta negli anni a una valanga di saggi e analisi dove la tessitura testuale viene scandagliata senza sosta alla ricerca di indizi, fino al grande successo internazionale partito dagli Stati Uniti – dove secondo una leggenda che gira nell’ambiente, molti pensarono che l’autore fosse proprio la traduttrice, Anne Goldstein, e questo abbia aiutato.
Ma un caso simile si era già dispiegato con grande clamore in Francia, quando quell’immenso scrittore che fu Romain Gary si tolse la vita, il 2 dicembre 1980, non prima d’aver consegnato all’editore l’ultimo manoscritto, con la sua storia vera degli ultimi anni. Vita e morte di Émile Ajar raccontava di come all’indomani del ’68, quando forse temeva di essere considerato un autore cui era rimasto poco da dire, Gary inventò a sessant’anni (era il ’74) il suo doppio, il giovane Émile Ajar, pseudonimo con cui firmò ben quattro romanzi (uno dei quali vinse il Goncourt) senza che nessuno sospettasse davvero di lui. Già per Mio caro pitone, il primo, si ammirò l’opera «matura» e si ipotizzò che si trattasse di un autore importante, ma si fecero i nomi di Aragon o di Queneau, andando fuori bersaglio. Gary-Ajar riuscì a dimostrare, quando ancora esisteva una società letteraria con i suoi valori e i suoi rituali, come la critica abbia tuttavia un gran bisogno di choc. Oggi quel mondo (erano i tempi in cui in Italia una recensione di Geno Pampaloni poteva cambiare il destino di un autore) è finito, i numeri lo rendono impossibile. L’intuizione di Gary è però attualissima, visto che viviamo esattamente nell’era dello choc.
Ci vogliono libri e soprattutto idee efficaci. I critici – i buoni critici, quelli che sanno sorprenderci e non sono pochi, lasciamo perdere chi invece racconta paro paro la trama di un libro – chiedono a loro volta di essere sorpresi per non naufragare nella routine. Elena Ferrante l’ha capito bene. E il fatto che, letto al contrario, Ajar dia come risultato Raja, ossia il cognome di una importante traduttrice e consulente di e/o, (editore appunto della Ferrante) in cui generalmente si tende a riconoscere ormai da anni la vera identità della scrittrice misteriosa, ebbene, questa non può che essere una – curiosissima, ma forse significativa – coincidenza. —