la Repubblica, 9 gennaio 2023
La lingua delle feste
Forse qualcuno ricorderà che l’anno scorso, in vista del Natale, la Commissione europea aveva preparato una sorta di vademecum, ad uso interno, con un minuzioso elenco di raccomandazioni linguistiche. Fra di esse, insieme a un nugolo di consigli curiosi, spiccava l’invito a non usare espressioni come le “vacanze di Natale”, perché non tutti in Europa sono cristiani. Il documento era così mal concepito che venne ritirato, in attesa di una versione più sensata (di cui per ora non c’è traccia). A riempire il vuoto di linee guida quest’anno ha provveduto l’università inglese di Brighton che – più o meno con le stesse motivazioni – ha consigliato a studenti, professori e personale di non parlare di Natale ma di “periodo di chiusura invernale”. E in Italia? Anche in questo campo siamo all’avanguardia, specie nelle scuole. Da noi gli episodi di soppressione del presepe, cancellazione di recite natalizie, alterazione dei testi delle canzoni (Perù al posto di Gesù), si susseguono da anni, anche se – fortunatamente – toccano poche scuole, e sono promossi da pochi insegnanti iper-ideologizzati. Le motivazioni sono sempre le stesse, in Italia come nel resto di Europa: non offendere gli islamici, far sì che tutti “si sentano al sicuro, apprezzati e rispettati”.
Qui non ho la minima intenzione di entrare nella controversia fra difensori delle nostre radici cristiane e laici intransigenti, e tantomeno toccare la questione del crocifisso (peraltro già risolta dalla Suprema Corte: lo Stato non può imporlo nelle scuole).
Ciò su cui vorrei attirare l’attenzione è una questione di natura fattuale: siamo sicuri che i musulmani si offendano per i nostri riti natalizi? A giudicare dalle innumerevoli prese di posizione pro-presepe delle famiglie e delle associazioni di fede musulmana direi proprio di no. E del resto esiste una controprova: nessun europeo sano di mente si indigna, si offende o si turba se – visitando un Paese a maggioranza musulmana – incorre in simboli, riti o celebrazioni di quel credo. Semplicemente prende atto che, in quel Paese, la maggioranza aderisce a una religione diversa da quella prevalente in Europa. O vogliamo essere così etnocentrici, presuntuosi, e pure un po’ razzisti, da pensare che i non-europei siano incapaci di fare quel che con naturalezza facciamo noi, ovvero accettare che ogni popolo ha le sue tradizioni e il diritto di seguirle?
Ed ecco che, allora, dobbiamo cambiare la domanda: perché, nelle nostre raccomandazioni, presumiamo che i musulmani possano offendersi, turbarsi, o non sentirsi al sicuro? Per capirlo, dobbiamo cambiare ambito, e occuparci di quel che, da una ventina d’anni, sta capitando nella scuola e nella famiglia.
Ebbene, secondo un’imponente letteratura sociologica e psicologica il fenomeno emergente del nuovo millennio, in America come in Europa, è l’affacciarsi di una generazione di ragazze e ragazzi profondamente toccati da insicurezza, dipendenza (non solo da internet), narcisismo, fragilità emotiva, suscettibilità, scarsa resilienza, incapacità di sostenere opinioni difformi dalle proprie.
Generazione che, a sua volta, è il frutto di una generazione di genitori individualisti, iperprotettivi, iperindulgenti, sostanzialmente incapaci di educare. Il fenomeno è talmente vistoso che ha dato luogo a tutta una terminologia, per lo più negativa, per descrivere genitori e figli:helicopter parenting (genitori-elicottero, iperprotettivi), i-generation (generazione internet),snowflake generation (generazione fiocchi di neve),nation of wimps (nazione di imbranati).
Ed ecco la risposta alla nostra domanda: se i funzionari europei presumono che i musulmani possano risentirsi per un presepe o per un augurio di Natale è solo perché proiettano su di loro le nostre fragilità e turbe ideologiche. Nel medesimo documento che invita a chiamare il Natale “periodo di chiusura invernale”, compaiono raccomandazioni come: non parlare di colonizzazione di Marte (perché evoca il passato coloniale?), non parlare di insediamenti umani su Marte (perché vengono in mente gli insediamenti israeliani nella West Bank?), non parlare della coppia Maria e Giovanni (troppo cristiano, meglio Malika e Julio), non dire “il ministro e la moglie” (meglio “la partner”, anche se è sua moglie). Ma, soprattutto, compare questo surreale invito: “evitare un linguaggio che suggerisca che essere più vecchi sia uno stato non desiderabile”.
No, cari euroburocrati, credete a me che ho 72 anni: essere più vecchi è peggio che essere più giovani, e raccontare che sia desiderabile – questo sì – è poco rispettoso, non tanto di noi ma dell’intelligenza di tutti.