Corriere della Sera, 9 gennaio 2023
L’intesa possibile sui migranti
Oggi la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen incontra Giorgia Meloni. Si parlerà senz’altro di migranti e del recente decreto italiano sulle Ong. È però probabile (e auspicabile) che la conversazione si allarghi all’intero dossier immigrazione e alle proposte elaborate in proposito dalla stessa Commissione. È ormai evidente che il sistema europeo di gestione dei flussi migratori non funziona. La Ue è un polo di attrazione irresistibile per milioni di extra-comunitari, perlopiù oppressi e privi di risorse sufficienti nei loro Paesi. Solo nel Mediterraneo centrale muoiono ogni anno più di 2.000 persone nel disperato tentativo di raggiungere le nostre coste. Chi riesce a sbarcare deve attendere tempi lunghissimi per l’esito della richiesta di asilo. Più o meno la metà riceve una risposta positiva, poi inizia il calvario dell’inserimento sociale e lavorativo. L’altra metà viene espulsa per mancanza dei requisiti, ma solo un terzo ritorna a casa. Gli altri finiscono per vagare come irregolari. A norma dei Trattati, la gestione dell’immigrazione dovrebbe ispirarsi ai principi della solidarietà e dell’equa ripartizione degli oneri fra Paesi, nel rispetto dei diritti dei migranti. A dettare le regole operative è il cosiddetto Regolamento di Dublino del 2013. Questo assegna la responsabilità di gestire le richieste di asilo (comprese le espulsioni) nel territorio di primo ingresso.
Ciò penalizza i Paesi più esposti, che oggi sono soprattutto quelli affacciati sul Mediterraneo centrale (Italia, Malta, Grecia, Cipro), anche se quasi due terzi dei migranti desiderano andare in Paesi diversi da quelli di sbarco, come l’Italia o la Grecia. Si origina in questo modo una spirale perversa. Fughe dai campi di prima accoglienza, spesso tollerate dalle autorità; sconfinamenti clandestini, intercettamenti e ordini di rientro nel Paese di primo ingresso, che non sempre riammette i presunti fuggitivi. Il risultato è un’escalation di recriminazioni e, quel che è peggio, una violazione dei diritti umani di schiere di migranti. È difficile immaginare una situazione più inefficiente e ingiusta, che ha richiamato più volte l’attenzione della Corte europea dei diritti umani.
Il regime di Dublino non tiene conto delle asimmetrie fra Paesi. I migranti seguono rotte che dipendono dalla geografia, ma sono attratti dai Paesi più prosperi, difficili da raggiungere direttamente. Fra il 2015 e il 2016 più di un milione di profughi siriani si diressero verso la Germania attraverso la rotta balcanica. Con un atto di benevolente coraggio, Merkel decise di assorbirne una grande parte. Poi si fece un accordo molto costoso con la Turchia, che accettò di trattenere i rifugiati nel proprio territorio, di fatto stornando i flussi verso i Paesi mediterranei. L’invasione russa dell’Ucraina ha causato una nuova ondata migratoria. La Bielorussia ha usato migliaia di migranti come arma di aggressione, spingendoli ad attraversare illegalmente il confine polacco. Un vergognoso uso strumentale dei flussi, già impiegato in forme meno esplicite dalla Libia.
Le istituzioni Ue hanno più volte provato a cambiare il Regolamento. Ora è sul tavolo una ambiziosa riforma chiamata «Patto europeo per l’immigrazione». Si prevede, fra l’altro, un meccanismo di solidarietà obbligatoria, con soglie minime di riallocazione dei migranti in base alla popolazione e al Pil di ciascun Paese, nonché il dovere di contribuire in altri modi all’«equa ripartizione» in situazioni di emergenza. Il Patto è attualmente bloccato (si vota all’unanimità), principalmente per le resistenze dei Paesi nordici e l’opposizione dei Paesi di Visegrád, Polonia e Ungheria in testa. L’attuale presidenza di turno svedese non considera il Patto una priorità. A Stoccolma c’è un governo di minoranza sostenuto dall’esterno dai Democratici svedesi, un partito di estrema destra ostile all’immigrazione.
Giorgia Meloni si trova così a fronteggiare oggi quattro difficili sfide. Primo, appoggiare il Patto sull’immigrazione, e soprattutto le norme che riguardano gli obblighi di solidarietà fra Paesi, che convengono all’Italia. Secondo, riappacificarsi con la Francia, che sostiene il Patto. Terzo, gettare acqua sul fuoco acceso dalla Lega, che ha interesse a politicizzare il tema immigrazione a fini elettorali. Infine, Meloni deve vedersela con i propri alleati sovranisti (compresi i democratici svedesi) che fanno parte del partito dei conservatori e dei riformisti europei, da lei stessa ancora presieduto. Questa complessa partita deve essere peraltro giocata nel più ampio contesto che si sta aprendo in vista delle elezioni europee del 2024 e del rinnovo delle cariche di vertice della Ue.
Le quattro sfide sono un banco di prova decisivo per la presidente del Consiglio. La scommessa è quella di lasciarsi definitivamente alle spalle l’ideologia sovranista (che non ha alcuna possibilità di creare alleanze costruttive, ma solo «negative», basate sul rifiuto dell’integrazione e sullo scaricabarile) ed abbracciare invece l’approccio euro-realista indicato nella piattaforma del partito conservatore europeo. Tale approccio non può più restare un orientamento astratto, ma deve trasformarsi in un motore di proposte condivise, concrete ed efficaci, volte a risolvere i problemi comuni.