Corriere della Sera, 8 gennaio 2023
Come vivono gli agenti sotto copertura
«Ero a pranzo con questi sudamericani trafficanti di droga. Commentavano la notizia di un poliziotto colombiano infiltrato che era stato scoperto e “lasciato nella selva”, come dicono loro. L’avevano sezionato in qualche boscaglia e piantato lì, appunto. Era vero? Era un avvertimento per i presenti? A me il video non l’hanno fatto vedere... Lì non puoi sbagliare. Per dire: non è che puoi diventare rosso! Niente domande, niente reazioni che potrebbero insospettirli. Devi avere sangue freddo, devi perfino far finta di non capire cosa stanno dicendo. Sai che ti stanno studiando, ti stanno mettendo alla prova. E tu la prova la devi superare, per forza».
La vita degli agenti sotto copertura è così. Sono sempre sotto esame. Sempre costretti a muoversi come se camminassero sull’orlo del burrone. Sempre con un copione da recitare alla perfezione. Vietato sbagliare o dimenticare anche la più piccola battuta.
Sono esseri simili ai replicanti di Blade Runner, gli undercover. Contano su una identità che qualcuno ha costruito per loro e che imparano a memoria, e quando sono in missione dimenticano chi sono davvero. Conta soltanto chi devono essere.
Niky, per esempio: chiameremo così l’uomo di quel pranzo con i narcotrafficanti che parlavano del poliziotto fatto a pezzi. Lui è un agente della guardia di finanza di una città del sud e da più di dieci anni studia, conosce, agisce come undercover contro il traffico nazionale e internazionale di droga.
È il reato sul quale gli infiltrati di tutte le forze di polizia lavorano di più. Ma c’è anche il traffico di armi, il terrorismo internazionale, la tratta di esseri umani, la pedopornografia...
Devi avere una grande dedizione per lo Stato e per il tuo lavoro, se metti a disposizione la tua vita per diventare un infiltrato fra gente che, se ti scopre, nella migliore delle ipotesi ti uccide senza farti soffrire troppo. Devi essere preparato, equilibrato, capace di non andare nel panico in situazioni di rischio estremo e paziente davanti a risultati che arrivano dopo mesi, più spesso anni.
«La parte più complicata e difficile è quella iniziale», ci dice Niky, «cioè agganciarli, conquistarsi la loro fiducia, superare la loro diffidenza. Io lavoro sul fronte dei sudamericani che vogliono aprire una porta d’ingresso della cocaina in Italia per poi smistarla in Europa. Quasi sempre cercano soggetti “puliti” che possano aiutarli. Persone che lavorano nei porti, negli aeroporti, per esempio. E allora è lì che tu ti inserisci nel lavoro di indagine classica fatta fino a quel momento e prepari il terreno, li agganci, ma ripeto: la loro diffidenza è pazzesca, maniacale».
Preparare il terreno e agganciarli, come dice il nostro amico, non è cosa di poco conto. Perché vuol dire preparare e inscenare ruoli, connessioni, attività di lavoro, modi di comportarsi, e tutto questo richiede una preparazione lunghissima e meticolosa. Significa prima di tutto avere una identità di copertura: non hai più il tuo nome ma ti chiami come l’uomo inventato. Sei lui e devi recitare lui: hai in tasca un documento vero che viene creato assieme a una storia che deve essere assolutamente verosimile. Hai un profilo facebook che risulterà aperto anni prima, hai magari una società tal dei tali che alla Camera di commercio risulta avviata tanto tempo fa, hai una email che ovviamente non può sembrare aperta ieri, hai una storia personale che potrebbe richiede la presenza di una fidanzata/amante (si chiede alle colleghe, in questo caso). E a volte ti tocca recitare anche gli stereotipi del caso: la bella ragazza che ti aspetta sulla macchina lussuosa mentre tu tratti un «affare» di droga, per dirne una. Devi sapere tutto dell’argomento che riguarda il tuo ruolo. Se sei un imprenditore del settore del legno devi avere una cultura sul legno, se ti spacci per istruttore di qualcosa devi esserlo davvero o quantomeno devi studiare moltissimo per sembrarlo veramente.
Naturalmente hai una casa che può diventare rifugio per quelli che stai cercando di incastrare. E, manco a dirlo: mentre sei sotto copertura metti in secondo piano – e a volte dimentichi per lunghi periodi – la famiglia, gli amici, la vita privata e gli interessi di sempre. Contatti limitatissimi o nulli con chiunque, colleghi compresi. A parte il cosiddetto handler, che è la tua ombra anche se non sta lavorando accanto a te da infiltrato, è il tuo anello di connessione con il mondo (quello reale) e il team investigativo che ti segue sempre, ti copre, ti monitora a distanza e, se è il caso, interviene.
«Un undercover non è mai solo», è il mantra di Sergio, nome in codice di un servitore dello Stato che lavora da tantissimi anni per il Ros dei carabinieri come coordinatore degli agenti sotto copertura. «Un undercover può contare sempre sull’handler, e poi sulla squadra che non deve mai perderlo d’occhio e, dove è possibile, lo tiene sotto controllo con le intercettazioni ambientali o con gli strumenti addosso all’agente. Ricordo una volta un trafficante colombiano che si è piazzato a casa del nostro agente per 15 giorni. Lì che fai? Non puoi certo chiamare tua moglie e dirle che non torni a casa. I contatti con la famiglia in quel caso li ha tenuti l’handler che incontrava l’undercover quand’era possibile mentre il nostro infiltrato raccontava al suo ospite di una relazione finita con una ex convivente e si presentava a cena con l’amante, cioè una marescialla».
E a proposito di chiamate: niente telefonini o numeri reali. Solo cellulari di servizio con la rubrica costruita a tavolino come tutto il resto. Sergio racconta di quella volta che i suoi uomini si finsero imprenditori di una società di import/export: hanno studiato ogni cavillo delle regole commerciali per essere esperti credibili e si sono presentati al mondo con le marescialle a fingersi segretarie dell’ufficio.
Situazioni di rischio non previsto? «Una volta decidemmo di far sequestrare in Spagna 200 chili di coca destinati in Italia. Volevamo allontanare i sospetti sugli italiani e avevamo in quel momento un nostro infiltrato con due dei cattivi, a Milano. Erano due argentini, un uomo e una donna. All’improvviso i finanziatori dell’importazione finita male, un napoletano e un foggiano, convocarono gli argentini e il garante del trasferimento della droga in Italia, cioè il nostro agente. L’hanno praticamente sequestrato. Per fortuna avevamo ambientali in casa e abbiamo capito quello che stava succedendo. Li abbiamo agganciati e seguiti da Milano a Roma con l’ansia di perderli... Sono andati in un ristorante a incontrare gli italiani. Li vedevamo gesticolare, stava succedendo qualcosa ma non sapevamo cosa: troppo rischioso, siamo intervenuti e li abbiamo arrestati durante il pranzo».
Insomma: una faticaccia. Stressante e pericolosa. Ma che quasi sempre porta a buoni risultati. Migliaia di chili di droga tolta dalle mani della criminalità organizzata, fiumi i denaro sottratti a operazioni di riciclaggio, carichi di armi bloccate e reti di terroristi e di pedofili scoperte grazie a chi si insinua nelle loro comunicazioni telematiche.
Luca, agente sotto copertura per lo Sco della Polizia di Stato, ha più di 30 anni di servizio e parla spesso con giovani che vogliono seguire la sua stessa strada: «Gli dico sempre che noi siamo attori. Ci dicono “ciak, si gira” e dev’esser buona la prima per forza. Non puoi rifare la scena».
Lui è il primo undercover riuscito a documentare (con telecamere e microspie) la complicità fra alcune Ong e i trafficanti libici di esseri umani (è ancora in corso il processo per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina). Si è fatto assumere da una di quelle Ong come addetto alla sicurezza e al soccorso migranti ed è rimasto per più di due mesi sulla nave. Ha il brevetto da istruttore soccorritore ma anche lì: hanno voluto metterlo alla prova. «Mi hanno fatto lanciare in mare per simulare un soccorso a 30 miglia dalla costa libica, acqua nera profonda. Ho visto come tirava la corrente, ho fatto i calcoli... Mi sono lanciato, li ho visti allontanarsi e pensavo: avranno capito? Mi lasciano qui? La corrente mi ha portato via ma sono venuti a riprendermi dopo mezz’ora. Prova superata!».
Se sei nei panni di criminali devi entrare nella loro mente, devi ragionare come loro, anche se il tuo cuore è da poliziotto. Devi esser freddo e, se serve, devi saper improvvisare. Luca racconta di quella volta che non l’hanno scoperto per un soffio. Improvvisazione, appunto. Un colpo da maestro. «Avevo uno zaino pieno di attrezzatura investigativa» racconta, «che non doveva vedere nessuno e che stavo spostando. Ricoprivo il ruolo di un ufficiale della marina ed ero, anche in quel caso, su una nave. Nessuno di noi sapeva che a un certo punto la procedura prevedeva il controllo dei passeggeri. Davanti ai due che volevano farmi aprire lo zaino pensavo: e adesso che faccio? Ho realizzato in un secondo che dovevo distogliere l’attenzione dallo zaino. Così ho fatto lo sbruffone. Ho detto: sì, sì, apro, non c’è problema, ma forse è il caso che lasciamo perdere; sapete che devo andare dal comandante, vero? Facciamo che faccio finta di non aver sentito. Quei due si sono guardati come per dire: mo’ che facciamo con questo? Ho messo lo zaino in spalla, arrogante. E sono andato».
Maestria, appunto. Luca appoggia sul tavolo cinque telefonini: cinque! E scherza: «Chi sono io oggi? Ah, già… Mario», e ne prende uno.
«È stressante, sì», torna serio. «È una cosa che ti consuma, è destabilizzante. Ma alla fine di ogni operazione è anche una soddisfazione bellissima. E non lo cambierei con nessun altro lavoro al mondo».