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 2023  gennaio 08 Domenica calendario

Biografia di Massimiliano Bruno raccontata da lui stesso

L’entusiasmo per la vita può passare – anche – da una lavagna con su scritto il menù del giorno. Massimiliano Bruno legge, anzi declama, piatto dopo piatto e accompagna la dicitura dei primi e dei secondi con il tono entusiasta di chi sa come godere degli attimi giusti offerti dalla giornata.

Lui è strutturato e costante.

È uno che anno dopo anno ha saputo scovare l’angolazione giusta dell’obiettivo, ha capito che il riflettore non deve necessariamente illuminare direttamente il proprio ego e da attore, piano piano, si è seduto sulla sedia del regista e ha diretto. Così dopo riconoscimenti, candidature al David e la “trilogia del crimine” (Non ci resta che il crimine diventerà anche una serie per Sky “la sto montando e c’è lo stesso cast del film”) ora è al cinema con I migliori giorni, pellicola di quattro episodi, girata con Edoardo Leo, con un super cast, una bella fotografia e il piacere di ripercorrere la strada intrapresa dalla sana commedia all’italiana.

Quando vede un film riesce a uscire dal ruolo di regista e amico di molti attori?

A volte sì, altre no. (Pausa) È più complicato con i film italiani, dove conosco il novanta per cento di chi ci recita, e magari ci sono andato a cena la sera prima, quindi mi capita di analizzare più in maniera tecnica e meno emotiva, mentre con i film di Asghar Farhadi ho il lacrimone dall’inizio alla fine.

Oltre Farhadi?

Ken Loach: La canzone di Carla, My name is Joe o Terra e libertà sono tra i miei preferiti; (ci ripensa) a Farhadi invidio la capacità di lasciare lo spettatore sospeso nel dubbio da che parte stare, non si capisce chi ha ragione tra i personaggi.

Succede pure ne I migliori giorni.

Noi un pochino di giudizio in più lo suggeriamo; (sorride) in generale, in questo film, sono un po’ tutti stronzi.

C’è un super Paolo Calabresi.

È bravissimo, pensare che anni fa voleva smettere; lo conosco da tempo, un’amicizia nata grazie a Paola Cortellesi, e da lì ci siamo frequentati pure con Mattia (Torre, grande sceneggiatore, morto nel 2019)

Ora che è un regista affermato…

(La domanda viene rallentata da un’espressione mista tra il “ma de che” e l’imbarazzato) Se lo dice lei.

È cambiato l’approccio con lei degli amici-attori?

(Ci pensa a lungo) È inutile mentire: con alcuni sì.

Cioè?

Sperano di venir coinvolti e lo capisci dal tono della voce, dal contesto della telefonata, dalla tempistica della telefonata: arriva appena esce la notizia del casting; mentre con persone quali Valerio Mastandrea il rapporto è immutato: non parliamo mai di lavoro.

E di cosa? Della Roma.

Neanche.

Di donne?

Seeee. Di figli e di stati d’animo.

Soluzione alla telefonata per il casting?

Chiedo un provino; in realtà, da regista, il provino mi sembra una forma di correttezza: è giusto offrire una chance all’attore rispetto al ruolo richiesto e poi chi sta dietro alla macchina da presa, se va bene, realizza un film ogni anno e mezzo, l’attore no.

Quindi?

Per il regista c’è un forte investimento emotivo, non può sbagliare.

Anni fa al Fatto ha dichiarato di non sentirsi pienamente nel ruolo di regista.

Sono molto cambiato: oggi ho le idee più chiare e mi piace; in questo film sono arrivato pure a utilizzare dei piani sequenza.

Chi lavora sul set le dà del lei?

(Preoccupato) No! (Ci ripensa) Forse i più giovani, ma giusto i primi giorni, poi gli dico “Oh!” (e lo accompagna con il gesto della mano).

Cosa non sopporta sul set.

L’autorità fine a se stessa, quando la percepisco l’associo alla debolezza e penso “poraccio”.

Mostra la parte agli attori?

Solo ai giovani, con i più esperti ho imparato a lasciare libertà; (sorride) non puoi leggere le battute a Fabrizio Bentivoglio, perché è meglio di te.

Secondo Calopresti uno come Bentivoglio nobilita qualsiasi film.

(Ride) È vero, infatti oramai lo chiamano per ottenere una candidatura al David.

I premi servono?

Un po’ sì, ma le dinamiche sono complesse: serve anche l’affetto dei colleghi.

Pubbliche relazioni.

Eh già.

Per Giovanni Veronesi il cinema italiano va male perché la maggior parte dei film sono brutti.

(Fa una pausa lunghissima) È un’autocritica?

No.

In questo momento mi sento di parlare bene del nostro cinema, altrimenti è un harakiri; il problema è capire come riportare il pubblico in sala senza il solito traino dei comici, un po’ come ci è riuscito Paolo Genevese in Perfetti sconosciuti.

Si è mai sentito frainteso come attore comico?

Quasi tutta la carriera: ancora oggi c’è chi crede che il mio personaggio in Boris sia reale.

In Boris il suo tormentone era “bucio de culo”…

Anni fa mi fermavano di continuo e mi chiedevano la gag, oggi invece scatta la premessa: “Mi scusi, sappiamo che è un regista, però Boris….”

Al “però” già conosce il seguito.

E mi viene da ridere, così li anticipo, li abbraccio al grido “famose ‘na foto!”. (abbassa la voce) Boris lo amo tantissimo.

Gli attori li ama?

Sì, se si comportano bene.

Prima regola per comportarsi bene.

Fare quello che dico io.

Scriveva Cesare Zavattini riferito a Vittorio De Sica: “Gli attori sono persone con carattere debole, poca coscienza, un pizzico di bontà e tanta vanità”.

È l’acqua calda, ma dipende dal momento della carriera: se va bene l’attore se la tira; se va male sono dimessi.

Ha capito meglio gli attori da attore o da regista?

Da regista perché in realtà non mi sento attore, anche se l’ho fatto e ancora mi dedico.

Anni fa si è definito come “un attore pigro”.

Era verissimo e sono cambiato; (sorride) in questo film, quando Edoardo ha mostrato la sceneggiatura, mi sono preoccupato: “Cavolo, il mio personaggio parla tantissimo, mi devo fare un mazzo tanto…”. Invece mi sono divertito, ed Edoardo è proprio bravo.

Siate amici da decenni.

Da poco più che ventenni: eravamo un gruppo ampio di persone e all’interno c’erano Marco Bonini, Daniele Silvestri, Niccolò Fabi, Michela Andreozzi, Sergio Cammariere, Rocco Papaleo, Angelo Orlando, Pier Francesco Favino (e continua nell’elenco).

Bel gruppo.

Tutti frequentavamo lo stesso locale a Roma (si chiamava proprio “Il locale”).

Allora, rispetto a questo “dream team”, su chi puntava?

Favino perché già da ragazzo era dotato di un carisma particolare: lui stava alla porta del locale, una sorta di buttafuori, però studiava all’Accademia, era preparato e si vedeva.

Mastandrea?

Ho sempre pensato che era un attore molto versatile; è stato bravo a lavorare tanto su se stesso, a non sottovalutare la gavetta, stessa cosa per Edoardo, e hanno seguito il filone tracciato anni fa da Manfredi.

E il filone-Sordi?

Lo copre solo Verdone.

Verdone è un totem.

Un’icona, conosco a memoria molti dei suoi dialoghi (e recita alla perfezione il Manuel Fantoni di “Borotalco”) ed è un attore strepitoso.

Lo dirigerebbe?

Deve ribaltare la domanda: si farebbe dirigere da me? Sarebbe un sogno.

È un cinquantenne che sogna.

L’altra sera stavo a cena con dei colleghi, miei coetanei e il refrain era “quello che dovevamo fare l’abbiamo fatto”. A un certo punto non ho retto: “Lo avete visto uno come Bellocchio? A 80 anni è una meraviglia”. Bellocchio per me è una fonte di ispirazione.

Quale dei suoi film ancora oggi firmerebbe…

Sono orgoglioso di Nessuno mi può giudicare e di Viva l’Italia.

In Viva l’Italia c’è Michele Placido…

Con lui ho avuto un bel rapporto, ma va saputo prendere nel suo istinto.

Tradotto?

Come altri grandi arriva sul set preparato a metà, per non perdere naturalezza; (pausa) capita anche a me: se studio troppo rischio di risultare un po’ finto. Anche Giallini è così…

Era intimorito da Placido?

Caratterialmente no, più che altro dal fatto che è un regista premiato; (ci pensa) ho girato film dove avevo tutti registi: Alessandro Gassmann, Edoardo Leo, Raoul Bova… insomma, era un po’ complicato, per fortuna sono stati carini; (torna a prima) un giorno Placido arriva sul set e domanda al mio aiuto: “Che scena giuriamo oggi?”. Io mi raggelo: “Michele, hai un monologo di 5 pagine”. E lui: “Va bene, va bene”. E lo ha recitato alla grande.

Ci vuole sangue freddo?

Anche consapevolezza, capire che non stiamo salvando vite. Che siamo dei fortunati. Che il nostro svago è stare dieci ore sul set. Che abbiamo la possibilità di imparare da persone uniche come Paola Cortellesi.

Per lei Paola Cortellesi è veramente importante.

Le voglio bene ed è una fuoriclasse.

Avete mai litigato?

Mai una volta.

Il suo primo giorno sul set…

Ero terrorizzato, emozionato: giravamo nella casa di Loris Del Santo con vista sul Colosseo; (sorride) pochi giorni prima delle riprese mi chiama Anna Foglietta: “Ti devo dire una cosa: sono incinta, capisco di causare un problema…” Insomma, era convinta che l’avrei sostituita.

E lei?

Le ho risposto: “Tranquilla, parlo con le costumiste e sistemiamo”.

Primo giorno di set da attore.

Avevo il ruolo di un indiano e tante frasi erano proprio in indiano. Ogni tanto pensavo: “Ma se sbaglio chi se ne accorge?”.

Le piace recitare?

Sì, però non amo stare stare sotto a qualcuno, non lo vivo benissimo.

Da regista sopporterebbe un attore come lei?

Ci litigherei.

Il momento di svolta.

Forse quando a 18 anni mi hanno investito con il motorino.

Che svolta è?

Presi 20 milioni di lire dall’assicurazione: con quei soldi da parte riuscii a mantenermi come attore, ad avere una riserva salvifica dove attingere, mentre i miei compagni di recitazione del tempo sono stati costretti ad arrendersi.

E i suoi genitori?

Mio padre era totalmente in disaccordo, anzi fui costretto ad andare via di casa.

È riuscito a vedere il suo successo?

(Gli occhi brillano) Sì, e più di una volta l’ho sentito parlare al plurale: “Tra poco usciamo con un nuovo film”.

Tra cinquant’anni cosa resterà di lei?

(Serissimo) Eh… (Cambia espressione, ride) Ma ‘sti cazzi, spero niente.

Lei chi è?

Una brava persona, la migliore che conosco.