La Stampa, 8 gennaio 2023
Toni Servillo contro il feudalesimo digitale
Un Toni Servillo «più Toni e meno Servillo», «senza trucco e davanti a un semplice leggìo come un musicista», in attesa che s’instauri quel «fenomeno di fusione tra attore e pubblico», quell’«intensificazione di energia collettiva» che è ciò che più conta in teatro. Questo accadrà, da mercoledì fino al 22 gennaio, al Teatro Studio Melato del Piccolo, in una serata piuttosto insolita. Tre modi per non morire di Giuseppe Montesano si preannuncia infatti come un esempio di teatro semplice, profondo, intenso, e radicale nel senso etimologico della parola. Perché torna indietro nel tempo, a tre esperienze del passato in cui si sono raggiunti i vertici della creazione poetica e la vita è stata reinventata: Baudelaire, Dante, i Greci.
E tutto questo, Servillo, promette fin dal titolo di difenderci dalla non-vita e dall’infelicità. In che modo?
«In un modo antico quanto il mondo. Per noi occidentali il teatro, da tre secoli a questa parte, significa belle sale, buone poltrone, messinscene e costumi. Nella tradizione orientale si conserva invece il significato fenomenologico originario, che sta appunto nella relazione fra attore e spettatore. Giuseppe Montesano, con cui collaboro da tempo e che mi è stato vicino anche nell’avventura di "Elvira Jouvet", ricostruisce nel testo il momento straordinario della nascita del teatro greco: nessuna città da loro fondata, per quanto piccola, poteva mancare di un teatro sul mare, affondato nella luce. Ci andavano tutti, non per intrattenimento, ma come un compito imprescindibile. Dalla rappresentazione intera della vita, vista anche nei suoi aspetti più orrendi e selvaggi, ne uscivano trasformati. Vivi».
Che cosa ci mortifica, oggi, e perché abbiamo tanto bisogno di questa cura?
«Viviamo in un’atmosfera di menzogna, in una cultura avvelenata. In una forma di feudalesimo digitale in cui affidiamo i nostri pensieri a delle memorie esterne. Alla base di tutto, naturalmente, c’è la volontà di vendere: sempre più oggetti, sempre di più. Il pericolo è grave soprattutto per le giovani generazioni, i primi lettori ai quali si rivolge Montesano. Ecco, di fronte a tutto questo smarrimento, a questa inquietudine, ho sentito il bisogno di non stare zitto, di fare un passo indietro e di diventare testimone: per mettere in circolazione certi pensieri. Senza abdicare all’atto della recitazione, ma facendo da tramite alle parole di chi, nel passato, la vita è riuscito a reinventarla. L’arte è nutrimento, ne abbiamo bisogno come il pane. Oggi, troppo spesso la cultura è solo informazione o passatempo. Ma non bisogna cedere al pessimismo. E scavare sotto la cenere, perché la brace è ancora accesa».
Un atto del tutto politico.
«Questo lo lascio dire a voi. Certo da queste serate mi aspetto che nasca quell’incontro fra me e il pubblico che finisce per cambiare la qualità della percezione: aspiro a questa chiarezza, a questa acutezza percettiva. E quando ho presentato una o l’altra delle tre parti davanti a una platea, per esempio Dante a Praga, Baudelaire a Verona e i Greci al festival di Veleia sui colli piacentini, di sicuro qualcosa di questo genere è successo».
Che cosa intende quando, nel dialogo con Montesano contenuto nel libro che accompagna lo spettacolo ("Tre modi per non morire", Bompiani) dice che qui sarà più Toni e meno Servillo?
«Che ci metterò molto delle mie emozioni personali».
E questo come avverrà, se si possono svelare i segreti del mestiere?
«Non è una cosa facile da mettere in parole. Per saperlo, bisogna che veniate a teatro».
Quanta importanza avrà la musica? Ancora nel libro, si racconta di come lei e Montesano vi siate scambiati, durante la realizzazione del progetto, decine di file musicali, da Annette Peacock a Billie Holiday, da Wagner a Demetrio Stratos.
«Anche qui preferisco non rovinare la sorpresa. Ci saranno delle interpunzioni, e ci saranno interventi più specifici nella parte dedicata a Dante. Ma la musica c’entra soprattutto nell’atteggiamento in cui mi sono messo io. Da testimone, le dicevo, ma anche da esecutore: come Glenn Gould quando suonava Bach o Richter quando suonava Schubert. Reinterpretavano la musica del compositore e insieme la facevano propria, eseguendo un atto necessario, che li rendeva più vivi e più felici».
Le va di scendere sul piano del contingente, raccontandoci per esempio che cosa ne pensa della situazione politica italiana, e dei tagli o delle trascuratezze che minacciano la cultura nel nostro Paese?
«Non mi va per niente, perché significherebbe produrre frasi e polemiche che finirebbero digitalizzate. Esattamente quello che detesto. Non aggiungerei altro al gesto molto chiaro che sta per andare in scena».
E allora parliamo, più positivamente, del ritorno del pubblico a teatro dopo la pandemia, e nonostante la crisi.
«Ma il teatro vince sempre. Ricordo quando ero ad Atene, per girare il film di Theo Angelopoulus che poi fu tragicamente interrotto dalla morte del regista. Era il momento più buio della crisi del Paese, ma i teatri erano pienissimi tutte le sere. La società trova conforto in questa cerimonia dal vivo, in questa forma assembleare che riscalda gli animi. Certo il cinema ha sofferto di più, e c’entra il feudalesimo digitale di cui le parlavo: durante i lockdown ci siamo abituati a farci arrivare a casa di tutto, anche i film e gli spettacoli. È più difficile, adesso, stanare la gente. Ricordo che da ragazzino gli amici andavo a prenderli suonando al citofono, non si rimaneva nelle case, si stava in giro. Ora le abitudini sono cambiate».
Eppure "La stranezza" il pubblico è riuscito a stanarlo. Forse perché parla di teatro?
«Anche. E perché era un progetto insolito e curioso già sulla carta, che si è confermato interessante per un pubblico un po’stanco dei prodotti di routine».
Questi "Tre modi", prodotti dal Piccolo con la Fondazione Teatro di Napoli– Teatro Bellini, andranno in tournée?
«Dopo Milano saremo a Napoli, e già sono state programmate alcune date internazionali. La parte dedicata a Dante è attesa a Parigi, Francoforte, forse in Argentina e in Giappone».