La Stampa, 8 gennaio 2023
Dal Duce a Moro e Borsellino, le borse dei misteri
Borse, borselli, borsoni. Alcune sparite sotto gli occhi (o le mani) degli inquirenti; altre svuotate di cartelle segrete mai più ritrovate; altre ancora recapitate come messaggio sinistro. I “misteri della pelletteria” attraversano la storia repubblicana e alimentano ricostruzioni sospese tra ipotesi lecite e teoremi senza fondamento. È la suggestione del dubbio, che apre la strada alla fantasia dei sospetti.
In ordine di tempo, la prima borsa è quella che Mussolini ha con sé a Dongo, sul lago di Como, quando viene identificato dai partigiani garibaldini della 52ª Divisione. Pesante, «oltre cinque chili», come testimonia con sin troppa precisione Urbano Lazzaro “Bill”, uno dei protagonisti dell’arresto. Il Duce gli avrebbe detto: «Fate attenzione, questa borsa contiene documenti che hanno una grandissima importanza storica». “Bill” apre la borsa e trova quattro dossier: il primo riguarda la situazione di Trieste, il secondo il processo di Verona con le domande di grazia di Ciano e dei gerarchi, il terzo la vita privata e la supposta omosessualità di Umberto di Savoia, il quarto un carteggio riservatissimo con Churchill. Che fine fanno la borsa e i dossier? Depositati nella filiale della banca Cariplo a Domaso, poi consegnati a Milano al generale Cadorna, comandante del Corpo Volontari della Libertà (Cvl), da questi affidati al ministro della Guerra Casati, quindi approdati all’Archivio di Stato di Roma.
Troppi passaggi e troppe sparizioni: in archivio è conservata oggi una parte minima dei 500mila fascicoli che componevano la dotazione originaria dei documenti riservati di Salò e di cui i quattro dossier costituivano la parte più importante. Qualcuno ha sostenuto che sono intervenuti i servizi segreti britannici per far sparire il carteggio Churchill-Mussolini; qualcun altro che è stato lo stesso Churchill a provvedere, venendo di persona sul lago nel settembre 1945 per le ricerche; altri che al Comando del Cvl viene distrutto il dossier su Umberto di Savoia. Il dato essenziale è che quei documenti sono stati visti (e forse fotografati) da più persone e che in tanti anni nulla di eclatante è trapelato: ciò significa che non contenevano segreti tali da riscrivere la storia del Ventennio.
Meno chiacchierata la borsa di Togliatti: quando il 14 luglio 1948 viene colpito dai proiettili sparati da Antonio Pallante, il segretario comunista ha con sé una borsa nera. Come testimonia Ugo Zatterin, accorso tra i primi sul luogo, Togliatti a terra mormora «la mai borsa» e subito dopo «la lettera...», sforzandosi a indicare con una mano l’interno della giacca. Ufficialmente nessuno raccoglie né l’una né l’altra, ma dell’una e dell’altra si perdono le tracce. Prese da Nilde Jotti, così lucida da pensare alla tutela del partito nella concitazione drammatica del momento? Oppure dai Carabinieri di guardia a Montecitorio? O da qualche agente dei servizi segreti sopraggiunto?
Strada aperta alla fantastoria sul contenuto: forse indicazioni ricevute da Mosca, con piani insurrezionali ed elenchi di “nemici del popolo” da colpire; o forse il numero di un conto corrente gonfio di rubli sovietici. Di fatto, nessuna certezza o rivelazione: probabilmente, erano solo appunti riservati di un leader politico, ordinaria amministrazione di chi occupa posizioni di rilievo.
Più chiara la storia delle borse di Aldo Moro: il 16 marzo 1978, al momento del rapimento in via Fani, ne aveva con sé più d’una (secondo la moglie Eleonora, tre; secondo una lettera dal carcere dello stesso Moro, cinque). Due sono state recuperate dai Carabinieri, repertate e restituite alla famiglia. L’altra (o le altre) sono state prese da uno dei rapitori, Valerio Morucci, che nella fretta dell’azione non si è accorto delle altre due. In ogni caso esse non contenevano nulla di rilevante, perché né durante le settimane del rapimento, né in quelle successive, i brigatisti rossi hanno fatto circolare documenti compromettenti, segno evidente che non ne erano in possesso.
Assai più utile, per contro, il ritrovamento casuale di un borsello, che un terrorista distratto smarrisce a Firenze nel luglio 1978 su un bus di linea: all’interno ci sono una pistola, la fotocopia della carta di circolazione di un motorino, la ricevuta di uno studio dentistico di Milano e un mazzo di chiavi. Partendo da lì, gli inquirenti identificano il covo brigatista di Via Monte Nevoso, a Milano, dove in ottobre catturano tre capi delle Br (Lauro Azzolini, Franco Bonisoli e Nadia Mantovani) e ritrovano 80 pagine dattiloscritte del “memoriale Moro” (le altre sono nascoste in un’intercapedine e verranno scoperte solo 12 anni dopo durante lavori di restauro: altro mistero, ma di un filone diverso).
Nel 1983 è la volta della borsa di Emanuela Orlandi, la quindicenne cittadina vaticana misteriosamente scomparsa il 22 giugno di quell’anno. Secondo l’ex giudice istruttore Ferdinando Imposimato, il 27 luglio successivo alla famiglia giunge per posta la borsa della ragazza, recapitata da chi vuol far credere a un rapimento e montare un caso per tenere sotto scacco il Vaticano. C’è chi costruisce il teorema della pista turca: «un’azione dei Lupi grigi per ottenere la liberazione di Alì Agca, l’attentatore di Giovanni Paolo II». Qualcun altro guarda ai servizi segreti della Germania Est, perché per un’accusa di spregiudicatezza la Stasi è bersaglio sempre adatto. Molti dubitano invece che ci sia stata davvero una borsa recapitata. Certo è, comunque, che le indagini non fanno passi avanti (la sparizione della Orlandi rimane un mistero 40 anni dopo).
La più nota è la borsa di Paolo Borsellino, il magistrato assassinato in Via D’Amelio il 19 luglio 1992: dentro c’è l’agenda rossa, un taccuino su cui Borsellino annota meticolosamente particolari rilevanti delle sue indagini, e dal quale non si separa mai nei cinquantasette giorni successivi alla strage di Capaci. Nomi compromettenti di mandanti ed esecutori? Piste “indicibili” che portano a responsabilità troppo alte? Tracce sulla compromissione tra mafia e politica? Ipotesi plausibili, ma senza prove: di certo vi è solo che la borsa viene prelevata dalle forze dell’ordine e restituita alla famiglia qualche mese dopo senza l’agenda rossa. L’ufficiale che la riconsegna alla vedova nega che dentro ci fosse un’agenda; la figlia del giudice sostiene di aver visto il padre metterla nella borsa la mattina prima di uscire. In assenza di prove, nessuno teorema è lecito, ma il diritto al dubbio è sacrosanto.
I misteri della pelletteria entrano nell’immaginario collettivo di un’Italia suggestionata dalle troppe pagine di storia rimaste oscure. A modo loro, le tante parole sulle borse sparite e le ricostruzioni improbabili sono a loro volta storia, riflettendo l’interesse del pubblico per i dilemmi delle vicende nazionali. Questo, almeno, vale per le vicende di ieri: perché oggi, deriva dei tempi, le borse di cui si parla sono quelle di Illary Blasi nascoste per dispetto da Francesco Totti.