La Stampa, 8 gennaio 2023
Chi c’è dietro Padre Georg
«Il piano segreto dev’essere articolato su più assi e fasi, ma coltiva un unico obiettivo: stressare il pontificato per arrivare alla rinuncia di Francesco, contando su un progressivo indebolimento del santo padre e su scelte dottrinali che creano sacche di malcontento da enfatizzare e raccogliere». Chi parla è un navigato cardinale italiano, fine conoscitore della curia romana dai tempi di Wojtyla: «Gli oppositori di Francesco sono consapevoli che oggi rappresentano una minoranza, quantomeno ai posti di comando. Hanno bisogno di tempo sia per conquistare consensi sia per indebolire Bergoglio. Per questo si muovono su più livelli: chi nell’ombra trama per ostacolare le mosse del papa, incrinando ad esempio le potenziali candidature forti al vertice della Congregazione per la Dottrina della Fede o della Conferenza episcopale italiana, chi pubblicamente crea tensione e scompiglio sugli indirizzi teologici come monsignor Georg Ganswein, il segretario di Ratzinger che, consapevolmente o inconsapevolmente, in libri e interviste ha valorizzato distanze e fratture tra i due papi, andando frontalmente contro il gesuita argentino». Insomma, quelli de "l’altra Chiesa", come qualcuno sussurra nei sacri palazzi, sanno bene che siamo distanti anni luce dal 2011-2012 quando Benedetto XVI decise di rinunciare e che quella situazione, quell’humus non è replicabile. All’epoca la curia romana era italiano-centrica con una solida alleanza tra segreteria di Stato ed episcopato americano, alla guida le famose tre B (Bertone, Becciu e Balestrero), in sostanziale equilibrio con la vecchia guardia di area diplomatica (Sodano) e astri nascenti (Piacenza). Benedetto XVI era consapevole che il Papa entrante avrebbe azzerato quel blocco di potere, coagulatosi fin dai tempi di Paolo VI, come poi avvenuto, in una lotta quotidiana finora poco raccontata. E, infatti, oggi troviamo uomini voluti da Bergoglio con una frammentazione del potere, a iniziare dal ruolo più contenuto affidato al cardinale Pietro Parolin, rispetto ai predecessori segretari di Stato. È innegabile che quest’ultimo abbia un ascendente più ridotto sul papa regnante, rispetto a quello esercitato da Bertone – almeno fino a metà 2012 – su Ratzinger.
Questa situazione rafforza Bergoglio che ha ormai quasi concluso i cambiamenti e impone cautela tra le file dei suo critici. In questa direzione vanno interpretate le parole dell’arcivescovo Timothy Broglio, il conservatore presidente della Conferenza episcopale degli Stati Uniti e che sicuramente fa parte di chi è scettico nei confronti di questo pontificato. In una intervista a Repubblica, prima ha criticato le fuoriuscite di Ganswein («Se abbiamo critiche da fare al Santo Padre non bisogna farle tramite i mass media ma direttamente a lui personalmente. E considero monsignor Ganswein come un amico»), poi ha ripreso un altro obiettivo caro ai critici di Francesco, normalizzare la rinuncia in modo da renderla un passo quasi normale, soprattutto per questioni di salute: «Forse la possibilità di un ritiro di Francesco sarebbe più fattibile adesso che non c’è più il Papa emerito… Ho visto anche la difficoltà, il fatto che non celebra: sono tutti elementi di un lavoro pastorale normale che mancano». Del resto, Francesco lo scorso mese ha spento 86 candeline e in una intervista all’Abc ha ricordato di aver già firmato una rinuncia in caso di impedimento di salute forse ricordando come terminò il pontificato di Wojtyla.
Il riflettore è quindi acceso sulla potente comunità degli Stati Uniti e le parole scelte da Broglio tranquillizzano, ma solo fino a un certo punto. La visione di Bergoglio di una Chiesa universale che torna alle origini con un Vaticano ridotto nelle marce di potere e un’interpretazione minimalista, pauperista, ed ecologista delle scritture agita quella comunità e anima le discordanze. Rimbalzano le preoccupazioni su questioni profonde come l’abolizione del celibato obbligatorio per i sacerdoti, i diritti delle coppie gay, la comunione per i divorziati, che vanno riammessi, e ancora e ancora. I critici conservatori aumentano e fanno rete. Certo, è da qualche mese che non tuona come suo solito monsignor Carlo Maria Viganò contro la fede globalizzata e un papa eretico, nemico della Chiesa, ma è più chi trama dietro le quinte per arrivare poi a porporati di rango come i tedeschi Walter Brandmüller e Gerhard Ludwig Muller, che firmarono i "dubia" su Amoris Laetitia con i cardinali Raymond Burke e Carlo Caffarra fino al guineano Robert Sarah e al novantenne Zen Ze-kiun, che ha appena incontrato Bergoglio ma che da una vita coltiva posizioni distanti dalla linea di dialogo con le autorità di Pechino per la chiesa clandestina e ufficiale in Cina. Immigrazione, Islam e sessualità sono altri temi che dividono e creano frontiere tanto che in questo scacchiere organizzazioni come Opus Dei, Cavalieri di Colombo e cavalieri di Malta, seppur per motivi assai diversi tra loro, patiscono un raffreddamento nei rapporti, rispetto ai predecessori.
E così nei sacri palazzi l’attenzione ora è massima, anche la recente firma del Papa sulla riforma del vicariato di Roma, segnata a San Giovanni in Laterano e non in Vaticano ha suscitato congetture. C’è anche chi ha letto la scelta come un segnale chiaro di valorizzazione della sua figura di vescovo della capitale rispetto a quella di monarca assoluto del piccolo stato e pontefice. Del resto, la fatidica data del prossimo 11 febbraio, giornata della prima apparizione della madonna di Lourdes e della firma dei Patti Lateranensi, si avvicina. Verrà ricordata soprattutto per il primo decennale dell’annuncio di Ratzinger che sconvolse il mondo: «Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino». Parole che in diversi, in penombra e a mezza voce, sognano di riascoltare con quell’inconfondibile accento spagnolo.