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 2023  gennaio 08 Domenica calendario

La lezione drammatica del caso di Kevin McCarthy

Nel quadrilatero del potere Americano, in due austeri edifici a poche centinaia di metri di distanza – la Casa Bianca e il Congresso - è andata in onda la più recente delle rese dei conti della politica Usa. Sfida dolceamara. Franca e ambigua allo stesso tempo.
La vicenda ormai si conosce. Il 6 gennaio, anniversario dell’assalto del 2021 ai palazzi della religione laica che ha inventato, in Occidente, la democrazia, si intrecciano due storie. Alla Casa Bianca il Presidente Biden, sopravvissuto allo tsunami delle elezioni di Midterm che avrebbero dovuto cancellare i dem da Camera e Senato, celebra la sconfitta di quell’attacco distribuendo elogi e medaglie alle forze dell’ordine che avevano fermato la rivolta. È il suo momento più glorioso di questi ultimi mesi.
Non molto più in là, la Camera bassa del Congresso è bloccata da 4 giorni nel voto per la elezione del Repubblicano Kevin McCarthy candidato dal suo partito come Speaker della Camera, la terza carica dello stato, e avversato da venti deputati del suo stesso partito. La vittoria arriva dopo 15 voti, trascinati nel cuore della notte fino alle otto del mattino del 7, in un clima infuocato che arriva alla rissa fra repubblicani nell’emiciclo, e i democratici che non vanno alle celebrazioni della Casa Bianca per evitare che la loro uscita abbassi il quorum e dunque faciliti la elezione di McCarthy.
Ma anche lo scontro sul nome dello speaker, pur tutto interno al partito repubblicano, è il risultato degli eventi di quel 6 gennaio, che ha devastato il partito repubblicano. Le due vicende, in apparenza opposte, ruotano dunque intorno allo stesso problema, che attraversa da almeno un decennio esplicitamente la politica americana: la disruption, una innovazione distruttiva provocata nel cuore di Washington da una destra radicale e antisistema, molto ben interpretata da Donald Trump.
Una resa dei conti, dicevamo, che ha mosso profonde reazioni nella opinione pubblica del Paese.
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Nella tradizione americana la fiducia e il rispetto delle istituzioni passa innanzitutto per l’accettazione del risultato delle elezioni. Ancora più raro è che la elezione da contestare sia quella di un membro del proprio schieramento. Per capire quanto raro, i media in questi giorni facevano risalire l’ultimo caso a cento anni fa. In realtà non è del tutto così.
Il funzionamento di Washington è da tempo in evoluzione. Messo sotto pressione soprattutto dal cambiamento dei profili sociali nell’epoca del reset tecnologico. Da una parte una classe media bianca e non urbana, come in Usa è ampiamente considerata la classe operaia, frustrata e arrabbiata, che guarda da anni ormai alla destra – fu George Bush Junior il primo Presidente a raccogliere questa onda, nella sua seconda elezione, dopo la Prima guerra in Iraq, sostenuto da questo ceto di classe media/operaia degli Stati centrali della Rust Belt, tra cui molti cattolici. Dall’altra una società urbana legata ai diritti identitari, scolarizzata, globalista, figlia della rivoluzione tecnologica, su cui si affermò il decennio di successi della Presidenza Clinton.
È un Paese che seri studiosi della politica considerano attraversato oggi da una frattura così profonda da costituire un rischio. Nel report annuale del think tank Eurasia, che ogni anno il 3 di gennaio fa il punto dei rischi alla stabilità globale, il politologo Ian Bremmer, che dell’Istituto è il fondatore, mette tra questi rischi "Una America divisa". Si legge a pag. 79 del rapporto: «Gli Stati Uniti rimangono una delle politicamente più polarizzate e disfunzionali delle democrazie dei Paesi industriali avanzati. La polarizzazione partigiana dell’elettorato americano continua a erodere la legittimità che costituisce la sostanza delle istituzioni federali. I tre rami del governo e un pacifico trasferimento di poteri attraverso libere e corrette elezioni».
Il risultato di questa polarizzazione, sostiene Eurasia, ha cambiato anche il senso della politica: «L’animosità fra rossi e blu è in crescita ormai da decenni. Ma oggi i due terzi degli americani vede gli oppositori non solo come gente che ha torto, ma anche come disonesti, immorali, e una minaccia al Paese. E la convinzione che minacce e violenza sono politicamente giustificate è aumentata fra i membri di entrambi i partiti – anche se l’aumento maggiore è fra i Repubblicani. La propensione americana a decidere il dibattito politico con soluzioni non democratiche farà aumentare il rischio di proteste su larga scala e atti di violenza politica, sia pur non sistematica».
Lo sconcerto di fronte all’intensità dello scontro avvenuto nei giorni scorsi in Congresso all’interno dello stesso schieramento si capisce meglio inserendolo in questo "umore" del Paese. Tuttavia, il caso della combattuta elezione dello Speaker McCarthy, offre anche un’ulteriore lettura possibile di quello che si muove nella politica americana.
Il quotidiano Politico opportunamente ricorda nella edizione di ieri che «le elezioni "rubate" che hanno avvelenato la politica americana avvennero nel 1984», anno in cui per la prima volta un democratico, il leader della Maggioranza Dem Jim Wright, contestò nel corso della cerimonia di giuramento dei nuovi eletti, la vittoria di un Repubblicano, Rick McIntyre, dell’Indiana. Il caso si trascinò a lungo, finì male per i repubblicani, e segnò una frattura di umiliazione e rabbia che avrebbe segnato una intera generazione di Conservatori, divenuti poi molto prominenti, come Newt Gingrich, Dick Cheney, e Leon Panetta. Un’altra frattura rilevante avviene nel 2000 quando la elezione di George Bush Junior viene contestata dal Democratico Al Gore che chiede la riconta delle schede, che non venne accettata legalmente, portando all’elezione di Bush per soli 537 voti. Va detto che in quel caso, da ambienti Clintoniani trapelò un dissenso sulla iniziativa di Gore.
Insomma, negare la libertà e correttezza delle elezioni, negli anni recenti è diventata la bandiera di un mondo popolare e politico incline a umori anti-sistema. Donald Trump ha fatto di questo umore la base della sua fortuna, e non a caso non ha mai accettato la sua ultima sconfitta, denunciando frode elettorale. Quella "frode" che ha poi animato e mobilitato l’assalto del 6 gennaio 2021.
Il cerchio potrebbe chiudersi qui. E invece quell’assalto ha portato a una nuova rottura, che si è manifestata, stavolta, dentro al partito Repubblicano. Il dissenso di 20 deputati sul voto per McCarthy ci riporta alle Midterm, come dicevamo all’inizio, a quel voto che è stato una profonda delusione del partito repubblicano, che attendeva una vittoria ampia.
La mezza sconfitta è stata attribuita dal corpo maggioritario del partito a Donald Trump, e ai suoi metodi distruttivi. In quell’appuntamento elettorale la distanza fra Repubblicani si fece pubblica, lo scontro visibile, così come i candidati di entrambe le parti. Trump non ha vinto, e la maggioranza fra i Repubblicani è cambiata.
Dicemmo allora che questo scontro così aperto dentro un partito in difficoltà era la prova di una forza capace di rigenerarsi nel corso degli eventi, insomma una prova di forza della democrazia che ancora anima i partiti in America.
Il voto combattuto di questi giorni nasce da quel cambio di maggioranza: i venti uomini e donne che si sono opposti fino all’ultimo a McCarthy, erano trumpiani in origine ma oggi diventati qualcosa di nuovo - radicali come Trump, ma senza di lui, anzi contro di lui. L’ex Presidente che ha cercato di convincerli a votare il nominato, non è stato ascoltato.
E questa è la nuova svolta in atto: anche senza l’ex Presidente la radicalità della destra non si spegne. Notizia non rassicurante per la conflittualità interna agli Usa. Eppure il modo con cui questa radicalità si è espressa, combattendo apertamente nell’emiciclo del Congresso, trattando apertamente, ottenendo richieste che hanno a che fare con il riconoscimento della propria presenza di minoranza nel Congresso, è una frattura si ma giocata con correttezza e a carte scoperte. Con una soluzione rimasta sempre dentro le regole istituzionali.
Difficile non dire che la strada percorsa non sia stata anche una prova di democrazia.