La Lettura, 8 gennaio 2023
I numeri delle chiese deserte
L’appuntamento settimanale in un luogo di culto, per i cattolici la messa domenicale, attrae sempre meno gli italiani. Addirittura cresce il numero di quanti non mettono mai piede in una chiesa. Negli ultimi vent’anni s’è invertita la proporzione tra le due categorie. Nel 2002 quasi 4 italiani su dieci si recavano in un luogo di culto almeno una volta la settimana, mentre solo uno su dieci non ci andava mai. Oggi i primi sono ridotti alla metà, solo 2 su 10, e dal 2018 sono stati superati da chi non va mai in chiesa, ormai tre italiani su dieci, il doppio percentualmente rispetto a vent’anni fa.
I dati si ricavano dall’indagine multiscopo dell’Istat nella quale vengono rilevate alcune informazioni circa la vita quotidiana degli individui e delle famiglie. Un campione di circa ventimila famiglie e oltre 45 mila individui residenti, dai sei anni in su, ha risposto alla domanda «Abitualmente con che frequenza si reca in chiesa o in altro luogo di culto?». In quanto ente pubblico, l’Istat non può acquisire informazioni circa l’affiliazione religiosa. Come in questo caso può però chiedere, attraverso una domanda comunque sensibile e perciò opzionale, quali siano le abitudini a prescindere dalla fede di riferimento.
Questi dati non riguardano dunque solo chiese e messe cattoliche: pesa su di essi, ancorché in piccola parte, l’ormai quasi 10 per cento di italiani di religione non cattolica, dai musulmani ai buddhisti, dai protestanti agli ortodossi. Alla domanda hanno risposto direttamente i maggiori di 14 anni. Dai 6 ai 13 anni la risposta è stata data dai genitori. Proprio in questa fascia d’età si registra un calo particolarmente significativo nella frequenza settimanale. I minori di 14 anni che andavano in chiesa almeno una volta alla settimana erano il 63% nel 2002 e sono ora scesi appena sotto il 30%. Si sono dunque dimezzati e mentre vent’anni fa erano quasi il doppio della media generale, 63% contro 36%, lo scostamento si è oggi notevolmente ridotto: 3 giovanissimi su 10 vanno in chiesa una volta la settimana, contro 2 italiani su 10. La disaffezione ha colpito anche l’altra categoria più presente in chiesa, quella degli over 65. Tuttavia, mentre vent’anni fa la percentuale dei giovanissimi più assidui staccava marcatamente quella dei più anziani, 63% contro circa 48%, oggi le due categorie sono sostanzialmente in equilibrio intorno al 30%, ancora lontane dalla fascia meno assidua dei 18-34 anni, scesa sotto il 10%.
È analoga la proporzione per quanto riguarda il 32,4% che ha risposto «mai» alla domanda. Qui però si affaccia il dubbio che la domanda sia stata intesa in modo diverso dai destinatari. Per alcuni il «mai» può aver riguardato la sola messa domenicale, per altri anche un battesimo, un matrimonio o un funerale in chiesa. Sul dato finale del 2021 pesano certamente le restrizioni della pandemia, come mostra graficamente lo scatto nel 2020 delle curve di decremento degli «almeno una volta» e di incremento dei «mai».
Le future rilevazioni ci diranno, come suggerisce alla «Lettura» il ricercatore Istat Sante Orsini, «se si tratti solo di un fatto congiunturale, legato alle limitazioni alla mobilità dovute alla pandemia e alla difficoltà di definire un comportamento abituale in un contesto di abitudini perturbate», nel qual caso si invertirà o almeno si fermerà la curva, oppure «di un impatto più strutturale che ha ulteriormente allentato i vincoli partecipativi, magari quelli meno radicati».
I dati restituiscono alcuni picchi. Tra le regioni con le chiese più vuote, negli ultimi vent’anni la Toscana ha superato l’Emilia-Romagna. All’estremo opposto Puglia e Sicilia si contendono il primato delle regioni con le chiese più piene, o meglio, visto i dati, meno vuote. Anche nel Mezzogiorno, ad ogni modo, chi non va mai in chiesa ha superato chi ci va almeno una volta la settimana, seppur di poco (23% contro 21,7%). Sempre tra i «mai», dieci punti percentuali dividono ancora i centri metropolitani dai comuni con meno di duemila abitanti (39% contro 29%). Se si combinano età e titolo di studio, la percentuale maggiore di «mai» si registra tra i neolaureati minori di 24 anni: 51% contro la media di 32%. Quella minore, 23%, spetta agli under 24 non diplomati o con diploma elementare e agli over 65 con licenza media.
Il macro-dato più significativo non riguarda tuttavia le differenze, ma l’omogeneità della tendenza. Come mostrano i grafici sulle aree geografiche e su uomini-donne, negli ultimi vent’anni si sono notevolmente ridotti gli scarti. Appaiono finiti i tempi di un Mezzogiorno nettamente più assiduo in chiesa rispetto al Centro-Nord. Allo stesso modo, la presenza femminile non sovrasta più quella maschile. In generale, dunque, tutto il Paese, nelle varie componenti, si è mosso verso una crescente disaffezione e con tanta maggiore intensità proprio in quei segmenti – come i giovanissimi, il Mezzogiorno, le donne – presso i quali vent’anni fa era maggiore l’affezione.
Davanti a un dato tanto spettacolare, la lettura istintiva è quella che confermerebbe la progressiva secolarizzazione dell’Italia, Paese sempre più occidentale, moderno, scientifico, capitalista e dunque sempre meno religioso. Dio muore e i credenti si estinguono perché manca all’uno e agli altri l’ossigeno d’una società adatta alla fede, di una terra cattolica che socializza alla pratica. L’ipotesi è forte. Conforta chi si accomoda nel ruolo di vittima – il credente purtroppo minoritario – e chi si esalta in quello del vincitore – il non-religioso finalmente maggioritario. L’ipotesi è debole, però, tanto debole, se ci immergiamo nel vissuto di individui, famiglie e comunità, se da lì osserviamo i nuovi percorsi e ripensiamo di conseguenza le distinzioni e le categorie fino a comprendere che l’assiduità in chiesa non va confusa con la fede e nemmeno con la religiosità.
Dio non sta morendo, in realtà, e i credenti non si stanno estinguendo. Cambiano, piuttosto, l’uno e gli altri. Di certo non sono più quelli di una volta, quelli che si incontravano la domenica in chiesa per la messa, in forma popolare, di massa. Posto che siano davvero esistiti come li immaginiamo, quel Dio e quei credenti davvero non esistono più. Ciò non vuole dire che non ci sia un altro Dio e che non ci siano altri credenti. Intanto in quel 20% che con la propria assiduità settimanale costruisce una nuova Chiesa, anche in forma vicaria per conto dei tanti che non ci vanno, ma sono rassicurati dal fatto che qualcuno ci vada, come ha a suo tempo notato la sociologa inglese Grace Davie. Poi, soprattutto, nella reinvenzione frammentata, individualistica, creativa, di nuove forme di rito, di spiritualità, persino di incontro e di socialità.
Così, alla scansione settimanale del giorno in cui si riposa il Creatore dopo avere fatto il mondo, si sostituiscono nuove periodicità, nuove domeniche, nuovi appuntamenti, nei quali Dio e credenti si incontrano tra consumo digitale, stili di vita e tecniche del corpo. Avviene per l’andare in chiesa quello che avviene per ogni altra dimensione sociale a cominciare dal calcio, anch’esso a suo modo orfano della liturgia domenicale.
All’alba del nuovo tempo d’una Chiesa post Joseph Ratzinger, vana è allora la lettura dei dati Istat con gli occhiali del confronto tra progressisti e conservatori. La disaffezione non è colpa di chi ha abbandonato la messa in latino, riposizionato l’altare e sostituito l’organo con chitarre e tamburelli; ma non è neppure colpa di chi si oppone a donne officianti, laici dal pulpito e gay e divorziati risposati in fila per la comunione. Travolgono gli uni e gli altri queste cifre, come dimostrano le realtà in controtendenza che sfuggono ai grandi numeri e cioè comunità ad alta partecipazione almeno settimanale, tanto nelle parrocchie quanto nei movimenti, tra gli scout e i neocatecumenali, tra i tradizionalisti e i cattolici Lgbtq+. La differenza che conta, infatti, non sta negli schieramenti, ma nella convinzione.
Il Dio e i credenti che stanno svanendo sono quelli dell’autorità, del dovere, dell’obbligo, dell’abitudine, del conformismo. Non si va più a messa perché lo dicono i genitori o il prete, per abitudine, perché ci vanno tutti. Se ancora ci si va, è perché preti e genitori sono discreti, perché ci vanno i coetanei giusti, perché non è un’abitudine, perché non va di moda. Prevale la scelta. Sull’inerzia vince la convinzione, sulla passività vince l’attività. Non a caso la percentuale di chi va in chiesa tutte le settimane coincide con lo zoccolo duro dei cattolici che il sociologo Franco Garelli definisce «convinti e attivi», stimati in circa il 20%. C’è da rallegrarsi, se si rinviene in ciò un valore, e c’è da preoccuparsi se si crede che anche l’autorità e l’abitudine lo siano.
Inquieta, soprattutto, la distanza tra il nostro Paese e gli altri Paesi simili al nostro da un lato e dall’altro la porzione di mondo, la maggior parte, in cui la religione non è questione di libertà, l’osservanza dei precetti è imposta con la forza e separarsi dalla religione dei padri può costare la vita. Comprendiamo che proprio in ciò finisce con il consistere la nostra nuova vera identità religiosa collettiva: non nel confessarci cattolici in chiesa la domenica, ma nel sentirci liberi di manifestare nei modi più diversi la relazione con il divino e la ricerca del trascendente.
È un mutamento epocale nel quale il cattolicesimo maggioritario si trasforma, da collante esplicito socialmente imposto, in fermento attivo da cui originano esperimenti tanto diversi quanto possono esserlo la destra identitaria cattolica e l’ambientalismo cristiano, il cattolicesimo femminista della scrittrice Michela Murgia e quello femminile della giornalista e blogger Costanza Miriano, ma anche l’islam tollerante, il buddhismo italiano, lo yoga e la meditazione.
Come le Prealpi bavaresi «terra di fede» rievocate con nostalgia da Joseph Ratzinger a più riprese, e da ultimo nel suo testamento spirituale del 2006, l’Italia cattolica delle messe affollate non c’è più. C’è un’Italia della scelta di credere o non credere, di frequentare o non frequentare il tempio, di celebrare o non celebrare in pubblico. C’è da ultimo un’Italia che si interroga su Dio stesso, sulla sua volontà di costringere e punire o di rimettersi alla libertà di uomini e donne, dunque sul suo potere di suscitare convinzioni e pratiche, di riempire o svuotare le chiese, di mettere la fede in piazza o di celarla nei cuori, di riunire le folle nei riti o di ripiegare gli individui nell’intimo.