Robinson, 7 gennaio 2023
Biografia di Edgardo Franzosini raccontata da lui stesso
Avevo immaginato che con un nome come il suo fosse nato in Argentina. E invece il settantenne Edgardo Franzosini è incontestabilmente brianzolo. Dopo il mestiere di bancario si è scoperto scrittore. Un meraviglioso animale che nelle retrovie del palcoscenico letterario offre il meglio. I libri che scrive e i personaggi che racconta nascono da un talento particolare che lo spinge a incontrarsi con delle meteore, degli indocili stravaganti, gente che predilige il margine al centro. Vite straordinarie di uomini poco illustri. I cui nomi a molti direbbero poco e ai pochi dicono molto: Bela Lugosi che fu tra i primi a interpretare il conte Dracula, Rembrandt Bugatti che passava giornate intere davanti alle gabbie di uno zoo ritraendone gli animali, Raymond Isidore, custode di cimiteri, che costruì un’opera d’arte raccogliendo spazzatura; il mangiatore di carta Ernst Johann von Biron. Mi fermo qui per ora, salvo ricordare l’impeccabile postfazione che Franzosini ha scritto al romanzetto di Sacha Guitry Memorie di un baro, da poco pubblicato da Adelphi.
Hai inserito Guitry nella tua galleria di stravaganti e misconosciuti. Ma lui è noto e versatile: attore, regista, scrittore, disegnatore.
«Era soprattutto un incosciente megalomane».
Amato da Truffaut.
«Uno dei pochissimi che aveva capito il suo cinema.
Così come Paul Léautaud, critico esigentissimo, si innamorò del suo teatro».
A proposito di Léautaud, so che stai lavorando su di lui.
«Una storia affascinantissima. Dove la ragnatela
familiare mi ha reso simile a una mosca».
Ne sei stato catturato.
«Vengo a sapere del suo rapporto con la madre».
Cosa scopri?
«Una donna bellissima che vedrà in tutto per una settimana. Passa tre giorni con lei a Calais in occasione della veglia funebre di una vecchia zia. Una pochade tragica, in cui madre e figlio fanno finta di non conoscersi. Anzi lei arriva al punto di chiedere a sua madre chi sia quel signore. Ma è tuo figlio! Le risponde meravigliata».
A quel punto?
«Trascorrono i restanti due giorni come due innamorati. E poi non si rivedranno mai più».
Altro che complesso edipico.
«Una storia complicatissima, maturata tra qualche amplesso, di cui uno fatale per Jeanne Forestier. Nasce Paul. Il padre, amante della caccia e delle donne sparisce. Sparisce anche Jeanne che al bimbo appena nato preferisce recitare nell’operetta».
Resta un orfano senza sorriso.
«Resta qualcosa di più, una disciplina tutta da costruire, un disfarsi del superfluo. Restano le seimila e cinquecento pagine delDiario ».
Un grafomane?
«Di più, un uomo per il quale il passato si apre su una sola e decisiva frase: “rimpiango tutto”».
Ma i personaggi che racconti cosa rimpiangono?
«Di essere stati senza essere capiti. Ma forse non ne hanno neppure la consapevolezza. Si muovono istintivamente».
Come Bela Lugosi.
«Come lui e tanti altri».
Questo ungherese che trasmigra a Hollywood,
come nasce nella tua testa?
«Ero a Milano sul tram. Tiro fuori dalla tasca un volantino che pubblicizza un cinema d’essai, dove si programma una serie di film interpretati da Bela Lugosi. Mi fermo stupefatto sulla frase finale: morì convinto di essere il conte Dracula».
Si era immedesimato nella sua interpretazione più riuscita?
«Un caso di mimetismo assoluto. Fu sepolto nel cimitero di Los Angeles avvolto nel suo mantello nero foderato di rosso. In effetti, prima di morire pronunciò le seguenti parole: “Io sono il conte Dracula, io sono il re dei vampiri, io sono immortale”».
Un caso di schizofrenia.
«Al contrario, una sovrapposizione perfetta tra cinema e realtà».
La camera oscura come fosse la tomba da cui risorgere.
«Perché no? In fondo il cinema ha vampirizzato lo spettatore».
Tu dici che Lugosi è il primo tra i vampiri cinematografici a indossare il frac.
«Prima di lui i vampiri indossano abiti meno vistosi. Il Nosferatu di Murnau porta una lugubre redingote biedermeier. L’idea del frac, secondo me, non è tanto associabile al pipistrello, perché non il pinguino altrimenti?, ma a un pura scelta di vanità».
Chi è nella vita Lugosi?
«Un attore ungherese, un teatrante di bell’aspetto. Si chiama Béla Blasko ed è nato a Lugos. Negli scampoli della mitteleuropa. l’Ungheria non offre prospettive.
Emigra in Germania, porta con sé poche cose tra cui un frac. Lavora nel cinema. Berlino gli fornisce buone occasioni. Ma è l’America il vero sogno. Giunge finalmente a New York nel 1921, e decide di chiamarsi Bela Lugosi. Due anni dopo è a Los Angeles. Infine a Hollywood. Che gli appare come un immenso parco artificiale. È la città fondata sul sogno, il cinema ne è la forma più adeguata a realizzarlo».
Un altro luogo che tu racconti si fonda sul sogno: Monte verità. Come nasce questa suggestione?
«Da un piccolo articolo che lessi sulla Gazzetta del Ticino.Si parlava di Elsa Beer morta in un ospedale all’età di 102 anni. L’avevo conosciuta che ne aveva 80.
Andai a trovarla ad Ascona dove viveva e fu lei che mi parlò di Alceste Paleari, eremita e unico adepto del culto della noce di cocco. Alceste fu trovato morto sul Monte Verità, sotto una palma. Quella storia mi tornò alla mente e ritagliai la foto che accompagnava l’articolo».
Che cosa ritraeva la foto?
«La didascalia diceva “Lavori di giardinaggio sul Monte Verità nel 1906”. Si vedeva un gruppo di persone con delle tuniche bianche intente a raccogliere frutta e a innaffiare. Si riconoscevano i fondatori della comunità: Henri Oedenkoven, Ida Hofmann, Lotte Hattemer e i fratelli Gräser».
Qualcuno definì Monte Verità la repubblica dei senza patria.
«Vi giunsero da diverse parti dell’Europa: teosofi, anarchici, comunisti, scrittori, psicoanalisti, malati di tisi e malati di nostalgia per un mondo preindustriale».
C’era di tutto ma non c’era Alceste Paleari.
«Fu il parto della fantasia di Elsa Beer. Non so perché le venne in mente di inventare quella figura, ma a me servì per raccontare quel mondo sognato e vissuto come se fosse davvero un’esperienza onirica, alla quale credettero o della quale si incuriosirono personaggi come Herman Hesse, D. H. Lawrence, Hugo Ball, Hans Arp, Isadora Duncan e altri. Else mi raccontò che era giunta sul Monte Verità alla fine della prima guerra mondiale assieme a Rudolf von Laban, teorico delladanza, che aprì un teatro scuola sul Monte Verità, trasformando il linguaggio della danza in un’esperienza che coinvolgeva tutto il corpo. La mia paura era di finire nel kitsch e Alceste è servito anche a questo, a tenere paradossalmente lontano il gusto che si carica di grottesco».
I personaggi che racconti – dal pugile e critico d’arte Arthur Cravan, attratto dalla meravigliosa vita del fallito, a Rimbaud che passa alcuni giorni a Milano, allo scrivano Giuseppe Ripamonti, un nome caro a Manzoni – hanno tutti una spavalda dote di eccentricità.
«Condivido il fastidio di Chesterton cui non piaceva l’eccentricità per l’eccentricità. Ci deve essere sempre un po’ di sofferenza, altrimenti si perde il lato umano».
Ma i tuoi personaggi vanno spesso oltre l’umano.
«Forse perché oltre l’umano colgo il lato mostruoso, l’eccesso, il fuori norma. L’eccentrico appunto. Ma senza che questa eccentricità venga programmata, studiata, esibita. Non è provocazione, è patologia. Quando lessi la vicenda di Rembrandt Bugatti, fratello di Ettore, fondatore della casa automobilistica, mi sembrò improvvisamente di vedermelo davanti, in una nuvola di sofferenza, e leggergli negli occhi infinito dolore».
Che cosa ti aveva incuriosito di questo scultore che fu visto, agli inizi del Novecento, come l’esatto opposto di Giacometti?
«Avevo leggiucchiato la sua storia. Quest’uomopassava intere giornate davanti alle gabbie dello zoo di Anversa. Disegnando gli animali esotici da cui realizzava bronzi. Accadde che durante la prima guerra mondiale le autorità di Anversa decidessero di abbattere tutti gli animali dello zoo per paura che un incursione nemica potesse involontariamente scardinare le gabbie e liberare gli animali. L’incubo di chi amministrava la città era non tanto che gli Zeppelin sganciassero bombe sulle case e nelle strade, ma che scimmie, leoni, tigri, marabù, struzzi, leopardi, elefanti e serpenti, invadessero la città creando panico nella popolazione. Perciò decisero di sopprimerli».
In che modo?
«Fu inviato nello zoo un plotone composto da una cinquantina di soldati con fucili carichi e baionetta innestata. I soldati erano vestiti in alta uniforme. Il contrasto tra la mise e il compito da svolgere era stridente. Bugatti che aveva vissuto in totale e struggente empatia il rapporto con le sue belve, subì un autentico shock. Morì suicida un paio di anni dopo a Parigi. Credo che la cosa che più gli corrisponda fu un necrologio apparso su di una rivista d’arte: “Bugatti aveva vissuto nella vita come un estraneo, ed è morto come lo sconosciuto che cancella dietro di sé ogni traccia della sua esistenza”».
Della tua esistenza si sa poco.
«Sono nato in un paese della Brianza. Mio padre da milanese sfollò durante la guerra. Vendeva abiti ed eraappassionato di libri e di lirica. Mio nonno era stato cantante, un baritono leggero, prima di intraprendere il commercio vestiario. Mia nonna era nata a Londra, figlia di una ballerina del Covent Garden. Durante una tournée a Orano, sua madre conobbe Jules, pare fosse un avvocato che esercitava a Parigi. Ignoravo queste storie. Poi, da una lettera nella quale Jules chiedeva notizie della bambina, mi venne voglia di approfondire».
«Andai a Londra e nella chiesa dove la nonna era stata battezzata trovai nuove informazioni. Il mio bisnonno era nativo di Sète, la cittadina sul mare dove era nato Paul Valéry. Credo che si siano conosciuti, più o meno dovevano essere coetanei. Appresi anche che Jules Fabriques aveva un difetto fisico per cui venne scartato dal servizio militare. La nonna fece quattro figli e morì negli anni della spagnola. Mia madre morì che avevo 15 anni. Per lungo tempo ho pensato all’ingiustizia di certe morti. Al peso del lutto. Al fatto che tutto quel che scrivo ha una conclusione tragica».
Ma anche leggera.
«È vero, come tentare di liberarsi di una storia troppo privata».
Hai lavorato in banca e poi sei diventato scrittore.
Che salto è stato?
«Ho fatto studi di lettere senza alla fine laurearmi. Sono andato via di casa e ho cominciato a lavorare alla Bancadell’Agricoltura. Nella sede di piazza Fontana. Credo di aver fatto il dovuto senza nessuna voglia di carriera.
Penso anche che Paolo Villaggio non abbia inventato niente. T. S. Eliot diceva che la banca è un buon luogo per nascondersi. Mi gratificava sapere che in quei posti erano passati Cechov, Svevo, Pontiggia, Maurensig.
Voleva dire che c’era speranza. Scrivevo poesie ma erano orecchiate. Né belle né brutte. Insignificanti.
Mandai il mio primo libro, era su Bela Lugosi, contemporaneamente alla Sugarco e alla Sellerio. Uscì per Sugarco. Firmai con lo pseudonimo di Edgard Lander, suonava meglio di Franzosini. Fu Pontiggia a portarmi all’Adelphi».
Come definiresti i tuoi libri?
«Sono grandi sogni in piccoli libri. Un autore che mi ha influenzato è Alberto Savinio con il suoNarrate uomini la vostra storia. Un altro è Marcel Schwob. Credo che per parlare del vero occorra metterci dentro un po’ di falso.
Un vero che non sia un po’ inventato sottoporrebbe i lettori alla tortura della noia. Mi viene in mente che Lugosi fece la controfigura e quando divenne famoso, anche lui volle la controfigura. Ecco il punto. Una verità senza una controfigura è inutile. Bisogna trovare qualcosa che le assomigli, per stabilire il confine tra vita vissuta e vita narrata».