Robinson, 7 gennaio 2023
Intervista a Damiano Michieletto
Damiano Michieletto è un campione senza confronti nel suo territorio.
Affrontando messe in scenaoperistiche, il regista veneziano (1975) accende la miccia dell’attualità mentre maneggia titoli tradizionali. Esplora i meccanismi psicologici dei melodrammi più famosi rendendoli moderni e incandescenti. Lancia messaggi remoti in dimensioni che ci sono familiari.
«L’opera elitaria non mi piace affatto», spiega durante un incontro in un caffè, tra una prova e l’altra, e ha esattamente la bellezza pallida e romantica che ci aspetta da un artista infiammato dalla propria vocazione. «La lirica deve conquistare un’accessibilità diffusa e ha gli strumenti per essere popolare». È persuaso che sia un’arte toccante per chiunque, al di là dei livelli sociali e culturali, e che abbia in sé la facoltà di «comunicare sentimenti che intrecciano gli esseri umani».
Sta nella rigenerazione del già noto la chiave del suo successo.
Monta spettacoli nei maggiori teatri del pianeta, come la Scala di Milano, dov’è in arrivo la suaSalome, opera del 1905 seduttiva e feroce. Fu composta musicalmente da Richard Strauss a partire dal dramma di Oscar Wilde, autore di un geniale testo invischiante, colmo di un eros fatidico e perverso. Questa regia era programmata alla Scala nel marzo 2020, ma poco prima del debutto il teatro chiuse i battenti per la pandemia. Un anno dopo fu allestita sulla scena ma senza spettatori e solo per essere trasmessa da Rai Culturasu Rai 5. Adesso giunge per la prima volta davanti al pubblico, con revisioni rispetto all’edizione andata in onda nel ‘21. Dal 14 al 31 gennaio ci saranno sei rappresentazioni. Si alternano sul podio i maestri Axel Kober e Michael Güttler.
Protagonista poderosa è il soprano di origine lituana Vida Miknevi?i?t?.
«Salome è orfana del padre ucciso dalla madre Erodiade, risposatasi col cognato, come inAmleto », osserva Michieletto.
«Erode brama la fanciulla e ne ha abusato. Al posto del fantasma shakesperiano, qui emerge da zone profonde la voce di Giovanni Battista, che porta alla luce i trascorsi di una famiglia malata, orribilmente disfunzionale».
Di solito le regie di “Salome” tendono a ritrarre l’eroina come una Lolita ammiccante, complice del suo carnefice.
«Ma no. È un’adolescente predata che diventa via via consapevole dei crimini commessi dalla madre e dallo zio-patrigno. Scoperchia il passato anche concretamente. Lo spazio dov’era stato rinchiuso suo padre è la stessa cisterna in cui è stato gettato il profeta Jochanaan.
Lungo l’azione Salome compie un rivelatorio viaggio psicoanalitico che, conducendola a fronteggiare l’accaduto, la fa impazzire. La sua distruzione è esplicita, fisica. Resta al suolo, sporca di terra e sangue, coi capelli strappati, e si butta nella tomba».
Come ha ideato la mitica danza dei sette veli? Nel suo spettacolo perde la valenza di un gioco incantatorio?
«Decisamente sì. È un volo all’indietro nell’incubo che Salome ha vissuto da piccola. La danza inizia con una bambina e riflette la presa di coscienza di quanto le è stato inferto. Gli Erodi simoltiplicano in diverse incarnazioni del personaggio, come se si stesse amplificando la violenza subìta. I sette veli sono aspetti sessuali: sono l’infanzia devastata di Salome, che proietta su Jochanaan il suo bisogno di protezione paterna. Con gesto incestuoso si bagna nel suo sangue. Baciare quella testa, per lei, significa regredire verso una purezza infantile che le è stata negata».
Può indicare le differenze con la regia ripresa dalla tivù nel 2021?
«Oggi cambiano molte cose nell’organizzazione dei movimenti degli interpreti poiché i cantanti in quel periodo non potevano toccarsi. Inoltre avevo dovuto rinunciare all’uso del fuoco, che invece ora avvolge la scomparsa del profeta. Ho anche rimesso mano al finale, che sarà più sviluppato in senso macabro».
Qual è l’ambientazione?
«Ho trattato Salome come una tragedia greca, nel segno dell’astrazione. La scenografia di Paolo Fantin è atemporale. Una stanza bianca è la metafora del sepolcro, voragine pronta a spalancarsi. Incombe dall’alto un’enorme sfera scura, una gigantesca luna malefica».
Come vede in generale la situazione della lirica?
«Va stimolata in una direzione innovativa. Sogno che ci siano più proposte contemporanee. La lirica è soffocata dal repertorio e i teatri, che dovrebbero avere una forte strategia produttiva, non fanno che celebrare i musicisti del passato. Ènecessario presentare novità che raccontino la nostra epoca e sperimentino linguaggi inediti, restituendo libertà all’immaginazione. La critica musicale è condizionata da paletti linguistici che terrorizzano i compositori, i quali, per compiacerla, creano musiche criptiche».
A proposito di questo tema: il 3 marzo debutterà in prima mondiale ad Amsterdam l’opera “Animal Farm”, tratta dal libro di George Orwell. Lei è stato il motore del progetto e firma la regia.
«È nata una coproduzione che include anche Vienna, Palermo e Helsinki. La musica del russo Alexander Raskatov è intensamente espressiva e materica. L’opera si svolge in un macello dove gli animali sono destinati alla morte. Simboleggia i luoghi in cui l’umanità è stata, ed è tuttora, brutalizzata e massacrata. Insorge la rivolta ma i fautori della rivoluzione, cioè i maiali, divengono i nuovi macellai, impossessandosi del potere. In Orwell l’allegoria dei sistemi di controllo che ci opprimono è magistrale».