Robinson, 7 gennaio 2023
La falsificazione dell’Urss sul patto Molotov-Ribbentrop
Il documento segreto era custodito dentro un plico contrassegnato dalla lettera K, ovvero il sigillo della massima riservatezza. Quel giorno d’estate – era il 10 luglio del 1987 – Michail Gorbaciov deve averlo tenuto tra le mani per diverse ore, prima di ordinare di rimetterlo a posto. Volle vedere anche la mappa siglata dal ministro degli Esteri tedesco Ribbentrop e da Stalin su cui era stata tracciata la linea di demarcazione tra Germania e Unione Sovietica. «Non bisogna mostrarli a nessuno. Sarò io stesso a dire con chi occorra farlo». Nonostante il dibattito crescente su quelle carte, il segretario della perestrojka ritenne poco opportuno rendere pubblico il protocollo segreto sulla spartizione dell’Europa orientale firmato da sovietici e nazisti nella notte tra il 23 e il 24 agosto del 1939, una sorta di “addendum” al Patto di non aggressione con cui si fissavano i confini delle rispettive zone di influenza ai danni di Polonia e Stati baltici. Gorbaciov sapeva bene che quei documenti avrebbero potuto cambiare la lettura della storia. E decise di negarne l’esistenza, in clamorosa contraddizione con lo spirito della glasnost. Perché i documenti vedano la luce occorrerà aspettare il 1992, quando l’Izvestija ne annuncia il ritrovamento con un titolo inequivocabile: “I protocolli originali di una collusione infamante”.
In realtà tutto il mondo sapeva da tempo di quell’accordo. L’importante ricerca di Antonella Salomoni raccolta in un saggio storico dal fascino romanzesco – Il protocollo segreto. Il patto Molotov- Ribbentrop e la falsificazione della storia – dimostra che la notizia dell’alleanza segreta tra i due totalitarismi, rafforzata da nuovi protocolli aggiuntivi sottoscritti il 28 settembre del 1939, era rimbalzata immediatamente nelle principali cancellerie europee. E se i sovietici nel dopoguerra provvederanno a nascondere le carte, consapevoli di aver violato la sovranità dei paesi baltici, della Polonia e della Finlandia, una copia microfilmata dei documenti cominciò a circolare grazie al funzionario Karl von Lösch venuto in possesso di parte degli archivi tedeschi. La prima volta che se ne parlò in pubblico fu in occasione del processo di Norimberga, nel 1946. Ma fin dalla preparazione del dibattimento i procuratori militari sovietici si erano messi all’opera per insabbiare il patto segreto con il Führer, ottenendo che il verdetto finale non ne facesse cenno. Dopo un animato confronto tra rappresentanti democratici e comunisti – i dialoghi sonodegni di un sapiente sceneggiatore hollywoodiano – quasi tutti convennero che bisognava impedire ai difensori dei criminali nazisti di mettere sotto accusa la politica estera dei paesi alleati. Ma il silenzio di Norimberga consentì all’Urss di liquidare come falsità le notizie comparse sulla stampa occidentale. E di negare per quasi mezzo secolo l’esistenza di questi documenti negli archivi del Cremlino.
Ironia vuole che il testo di riferimento della campagna sovietica contro l’Occidente porti come titolo Falsificatori della storia, accusa che andrebbe rovesciata: l’aggressione alla Polonia è giustificata come «intervento difensivo nei confronti dei fratelli ucraini e bielorussi», la guerra sovietico- finnica come risposta «a un attacco della Finlandia» e l’occupazione dei paesi baltici come “reazione” a presunte rivoluzioni. Una lettura mistificata del passato che resterà canone indiscusso della storiografia sovietica fino alla fine degli anni Ottanta, quando nonostante la prudenza di Gorbaciov il nuovo corso non può fermare un impetuoso vento di libertà, alimentato anche dalle proteste di polacchi e paesi baltici. Dopo laceranti discussioni e tentativi di occultamento, a cinquant’anni dall’inizio del conflitto mondiale la commissione presieduta da Aleksandr Nikolaevic Jakovlev riesce finalmente a far luce sugli accordi segreti, denunciando il carattere imperialista e “immorale” della politica estera di Stalin. Un’importante acquisizione che però non mette un punto finale a questa storia.
Il capitolo della restaurazione viene scritto dal nuovo zar Putin con l’opuscolo celebrativo Settantacinque anni di una grande vittoria ( 2020), in linea con il vecchio canone sovietico di Falsificatori della storia. Nessuna critica per l’Urss di Stalin che «fu costretta a entrare in Polonia per fermare la Wehrmacht», come se l’invasione tedesca non fosse stata concordata nel patto segreto denunciato dagli storici della glasnost. Un colpo di spugna, in sostanza, sul lavoro di Jakovlev e sulla trasparenza archivistica voluta da Eltsin. Il libro di Antonella Salomoni è bello per la ricchezza dei documenti e perché attraverso il passato parla del presente. L’ultima riga è dedicata alla parola d’ordine “denazificazione” con cui la Russia ha invaso l’Ucraina. E la memoria torna al primo capitolo del volume, là dove viene evocato il cambiamento lessicale con cui la stampa sovietica coprì l’occupazione nazista della Polonia nel 1939: non più “un’aggressione di fascisti”, ma “operazioni militari” della Germania nel paese confinante. Ci ricorda qualcosa?