ItaliaOggi, 7 gennaio 2023
Orsi & tori
È peggiore e foriera di tempi duri la notizia dei crolli in borsa delle aziende tech, gli Ott americani, con la loro decisione di fare migliaia e migliaia di licenziamenti, oppure è peggiore e foriero di una crisi istituzionale il triste spettacolo del Partito repubblicano che dopo aver conquistato, con due parlamentari in più, la Camera americana non riesce a eleggere un portavoce, cioè il presidente del secondo ramo del sistema democratico statunitense?
Sono tutte e due notizie pessime, perché esprimono in una volta sola la crisi crescente del paese guida del mondo occidentale.
Gli Ott, da Amazon a Meta, a Twitter, Salesforce, così come Google, sono il frutto non solo della ricerca avanzata americana della Silicon Valley, ma anche dell’appoggio politico sotto forma di agevolazioni e contributi degli ultimi tre presidenti che hanno governato per due mandati,
cioè otto anni: dai democratici Bill Clinton e Barack Obama, passando per il repubblicano George W. Bush.
Solo Obama, nell’aprile dello scorso anno, in un discorso all’Università di Stanford, il cuore della Silicon Valley, ha fatto autocritica: ha ammesso di non aver colto il pericolo soprattutto dal lato della disinformazione, delle fake news, ma anche del potere enorme raggiunto dagli Ott. Ha parlato di quanto siano vulnerabili le istituzioni americane di fronte ai diffusori indomiti di bufale, arrivando a ipotizzare una minaccia reale per la democrazia. Ha riconosciuto che senza i social, da Twitter a Facebook, non sarebbe arrivato alla Casa Bianca. Ma ha anche ammesso che «quando ero presidente non avevo compreso quanto le istituzioni siano diventate permeabili alle bugie e alle teorie complottiste» oltre alla potenza finanziaria accumulata dagli Ott. Una mancata comprensione la sua per cui ora prova rimorso. E ha proseguito parlando del ruolo delle Big Tech nel fomentare le divisioni sociali, nell’aumentare la portata della disinformazione, erodere la fiducia nelle istituzioni democratiche e ha offerto delle soluzioni (di tipo europeo) per salvare la tecno-democrazia: trasparenza algoritmica, rallentamento della viralità, standard legali. E ha concluso: «Senza alcuni standard, le implicazioni di questa tecnologia per le nostre elezioni, per il nostro sistema legale, per la nostra democrazia, per il regime probatorio, per il nostro intero ordine sociale, sono spaventose e profonde».
Si è dimenticato solo di dire che quando era presidente fece ogni resistenza nei confronti delle iniziative che la Ue e il Parlamento europeo stavano prendendo per quantomeno limitare lo strapotere degli Ott. A Stanford ha rivalutato tutte queste azioni che hanno trovato nella vicepresidente Margrethe Verstager un implacabile sostenitore.
I crolli dei valori borsistici degli Ott americani non riguardano soltanto coloro che si sono dedicati ai social con la diffusione di fake news, ma appunto anche operatori come Amazon, che partendo dal commercio online di libri sono diventati una macchina commerciale che ha annientato migliaia e migliaia di aziende commerciali, senza tuttavia trascurare essa stessa l’area della comunicazione e dell’informazione, al punto che il suo fondatore e azionista di comando, Jeff Bezos, si è tolta la funesta soddisfazione di comprare il 100% del simbolo della stampa libera americana, lo Washington Post, che durante il controllo di Katharine Graham aveva portato il presidente Richard Nixon alle dimissioni per lo scandalo Watergate, diventando il simbolo della libertà di stampa.
Ora, sia pure in una economia dove non esistono regole condizionanti di assunzioni e licenziamenti, Amazon, Facebook ribattezzato Meta, Salesforce e Twitter conquistato da Elon Musk hanno annunciato, in contemporanea con il crollo in borsa, decine di migliaia di licenziamenti. Si aspetta, dovuto, un nuovo intervento di Obama che tiri fino in fondo le conclusioni e cioè che dopo aver conquistato il mondo con una supremazia tecnologica che ha incantato larga parte dei suoi cittadini, ora emergono le debolezze di un sistema malsano e alla fine antidemocratico nei confronti di una economia che per fortuna comincia a rifiutare il condizionamento psicologico dei cittadini nei comportamenti da tenere.
Ma se gli effetti sono gravi sul piano economico per questi Ott, che tuttavia licenziando decine di migliaia di persone certamente riequilibreranno i loro conti, gli effetti negativi della loro azione arrivano sino al parlamento americano, dove pesano tuttora le manipolazioni attuate in particolare da Donald Trump. Infatti la difficoltà, dopo più di 100 anni, di trovare all’interno del Partito Repubblicano una intesa per nominare lo speaker (ovvero presidente) della Camera non è altro con che il riflesso delle manipolazioni compiute prima per la vittoria di Trump e poi per il tentato assalto al Congresso, gestito proprio grazie all’uso spregiudicato dei servizi degli Ott. Il guaio è che i due partiti storici americani, ma in particolare quello repubblicano, sono permeati e schiavi del sistema delle fake news e anche un candidato ideale nella persona di Kevin McCarthy, che è stato leader della maggioranza alla Camera durante la presidenza Trump, oggi è osteggiato dall’ala Trump dura e impura. Anche l’undicesima votazione, nella giornata di giovedì 5, è stata una fumata nera. Così Trump ha deciso di postare sul social Truth (creato dalla Trump Media & Technology group) visto che l’ex-presidente è stato cancellato da Facebook e Twitter, un fotomontaggio che lo ritrae mentre deride il presidente Joe Biden: nell’immagine, che rievoca il discorso sullo stato dell’Unione, si vede lo stesso Trump che fa le boccacce alle spalle del presidente dallo scranno riservato allo speaker…
Non credo ci siano parole da aggiungere per comprendere il degrado in cui è caduta e sempre più cade la più grande democrazia al mondo.
In questo contesto sicuramente, e per fortuna, potrà pesare sugli Ott l’arrivo alla presidenza della Federal trade commission (l’antitrust americano) della giovane e determinata Lina Khan, la quale ha reintrodotto il principio che l’azione antitrust debba garantire non soltanto il miglior prezzo dei prodotti e servizi per i consumatori, ma anche lo spazio per una sana concorrenza sul mercato. Al contrario gli Ott hanno avuto garantito per anni un dominio assoluto dei rispettivi mercati, in pratica senza sostanziale concorrenza. Si pensi ad Amazon che ha finora attuato la politica di prezzi bassi e del servizio a domicilio perché ha avuto il tempo di creare al proprio interno network di trasporti e sevizi di cloud dai quali ricava utili, ma soprattutto impedisce per superiorità tecnologica di trovare spazio a concorrenti che pertanto non hanno libertà di ingresso sul mercato, delineando per Amazon posizioni monopolistiche. Ma gli Usa sono stati fin dalla fine dell’800 la patria della libertà di impresa e della guerra dello stato a chi cercava di diventare monopolista.
Ciò che sta avvenendo con il crollo delle quotazioni in borsa e dei forti licenziamenti, possibili senza colpo ferire per la legislazione liberista americana, è il segnale più significativo della crisi. Dipenderà dall’attempato presidente Biden cogliere l’occasione per ristabilire le regole della democrazia economica, e di volgere in positivo ciò che sul piano politico, degli investitori e dei lavoratori, è negativo.
È questa una importante lezione per tutto il mondo democratico dove il primato della tecnologia, il potere che le nuove tecnologie assegnano a chi le controlla, sono un pericolo per la stessa democrazia. Senza contare tutti gli aspetti di etica che il dominio delle nuove tecnologie sta determinando con i suoi palesi effetti negativi sullo stesso sistema democratico, come illustra la vicenda delle undici (e non è finita, al momento in cui va in stampa questo O&T) votazioni a vuoto per eleggere lo speaker della camera dei deputati americani, la terza carica dello stato più potente (al momento) del mondo, esempio per secoli di democrazia.
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Ma è il mondo intero che è sconvolto non solo da una guerra che non sembra aver fine, ma soprattutto dalla rivoluzione tecnologica. Che al momento non sembra di essere di aiuto a ridurre le povertà e a moderare le ricchezze. Mentre c’è la guerra fra Russia e Ucraina si rischia di perdere di vista le guerre per la fame nel mondo e per un’economia che sappia distribuire più equamente le ricchezze. Le nuove tecnologie non hanno nessuna capacità di controllare l’inflazione, che ha origine dalla fonte fondamentale della vita sul pianeta, l’energia. Con tutta la capacità di analisi che proprio le nuove tecnologie permettono, nessun paese del mondo occidentale, in primo luogo l’Italia, è stato capace di vedere gli squilibri esistenti negli approvvigionamenti di gas e petrolio. Con tutta la sapienza e l’intelligenza (artificiale) che le nuove tecnologie garantiscono, nessun paese è stato capace di programmare un’equilibrata distribuzione delle fonti di energia. La realtà è che spesso mancano i cervelli per utilizzare a fini positivi le nuove tecnologie. Così periodicamente il mondo viene colpito non solo da guerre ma da carestie e crisi economiche.
Non si può dimenticare per quanti anni il mondo occidentale è rimasto colpito dagli effetti della cristi indotta dal crack della Lehman, che non era neppure la più grande banca del mondo. Per decenni il mondo occidentale ha vissuto in recessione. L’Italia più degli altri paesi, avendo un assetto della contabilità nazionale in cui da decenni il debito pubblico è superiore al prodotto interno lordo. E non a caso ora che la guerra ha indotto una nuova crisi energetica, questo forte debito pubblico italiano sta provocando un tasso di inflazione all’11,5% mentre quello degli altri paesi della Ue sta scendendo intorno al 5-6%. Oltre alla improvvida forte dipendenza energetica dalla Russia, pesano i tassi di interesse più alti che l’Italia deve pagare sul debito pubblico, conseguenza anche della scelta della Bce di allinearsi alla Fed americana nel rialzare il tasso ufficiale per cercare di combattere l’inflazione. Sembra ed è un paradosso: per far scendere l’inflazione viene a costare di più il carburante denaro, che inevitabilmente riduce la crescita economica e quindi la creazione di maggiore ricchezza da distribuire.
L’Italia da sola non può sovvertire l’ordine economico in atto del mondo, ma potrebbe porre mano a una soluzione risolutiva, come questo giornale e decine e centinaia di economisti, imprenditori, banchieri e manager sostengono da anni: e cioè di ridurre il debito pubblico vendendo asset immobiliari che lo stato ha trasferito agli enti locali e che sono nella maggioranza improduttivi. Sì, cari lettori, vi annoio ripetendo che la prima banca italiana, Intesa SanPaolo, guidata da Carlo Messina, proprio recentemente eletta banca tecnologica più avanzata del mondo, è disponibile a organizzare fondi immobiliari e a collocarne le quote a investitori in primo luogo locali ma anche mondiali, per poter valorizzare e far rendere quegli immobili. I soldi della vendita delle quote andrebbero agli enti locali che complessivamente concorrono al debito pubblico per circa 500 miliardi di euro e che quindi potrebbero, con il ricavato, contribuire al taglio del debito pubblico. Finalmente l’Italia non sarebbe più il paese della Ue considerato a maggior rischio finanziario e l’economia nazionale potrebbe essere in linea con i paesi più forti europei. Non è più sopportabile il paradosso dell’Italia, paese europeo con il più alto risparmio, che va a finanziare le economie estere anche perché in Italia il mercato borsistico è da paese del terzo mondo.
Se si tagliasse il debito e si costituisse un vero mercato borsistico, favorendo la quotazione di migliaia di aziende il risparmio italiano sosterrebbe lo sviluppo del paese. Quindi un maggior pil e un rapporto debito pil ancora migliore. Lo strumento fondamentale per tutto ciò? La leva fiscale per incentivare le quotazioni a favore delle aziende e di chi ne sottoscrive il capitale. Nella finanziaria approvata meritevolmente a tempi di record fa ridere la battaglia resasi necessaria perché lo sconto fiscale per chi si quota tornasse da 300 a 500 mila euro. Ci vuole altro per creare un vero mercato borsistico e per trattenere il risparmio italiano in Italia, che ora va, per il 75%, a finanziare economie estere. Amen!