il Fatto Quotidiano, 7 gennaio 2023
Colloquio con Lucio Caracciolo
Lo scenario possibile di un dopo-guerra del conflitto russo-ucraino? Facile a dirsi, quasi impossibile da immaginare. La controffensiva dello scorso settembre da parte dell’esercito di Kiev è confluita in una fase quasi di stallo, a cui contribuisce anche l’inverno. “La guerra sarà ancora lunga, su questo non c’è dubbio. Al massimo potranno esserci alcune fasi di cessate-il-fuoco ma niente di più”, afferma Lucio Caracciolo, direttore di Limes che aggiunge: “Chi crede ad una pace definitiva possibile, data la situazione in campo, rischia soltanto di far prolungare il conflitto”. Secondo Caracciolo, che recentemente ha pubblicato il volume La pace è finita per Feltrinelli (un’analisi sulla “illusione” della “pace definitiva” in Europa dopo la Seconda guerra mondiale), è difficile ipotizzare la sconfitta o la vittoria di una delle parti: “Il timore dei due belligeranti – spiega – è quello, non tanto di perdere la guerra ma di perdere la propria nazione. È evidente comunque che a decidere saranno anche gli Usa, senza il cui aiuto militare ed economico l’Ucraina avrebbe già perso. Da Washington faranno pressione su Kiev perché accetti qualche compromesso. Allo stesso tempo comunque, gli americani temono una Russia che esca distrutta o disgregata da questo conflitto perché questo significherebbe una crisi geopolitica a livello mondiale”. Insomma, un vero e proprio cul de sac, alimentato anche dal fatto che in questa crisi bellica nessuno avrà la forza di distruggere completamente l’altro. Come per esempio, nel caso di guerre mondiali, accadde con Hitler e l’esercito tedesco, battuti e annientati o come con Napoleone in Russia. Uno vince, uno perde: punto. “Anche nel caso di quegli esempi storici dipende dalla misura che si dà della vittoria e della sconfitta”, continua Caracciolo: “Nella Seconda guerra mondiale, ad esempio, i tedeschi avevano perso e i sovietici avevano vinto. Oggi possiamo dire che la Germania esiste ancora mentre l’Urss non esiste più”. Il paradosso di questo conflitto è che, nel caso di una trattativa e di un compromesso, si potrebbe tornare, dopo morti e distruzioni, a quegli accordi di Minsk (2014-2015) che prevedevano anche il riconoscimento dell’autonomia amministrativa delle autoproclamate repubbliche del Donbass, ma senza includere la Crimea, la penisola annessa anni prima alla Federazione russa e a cui Kiev comunque non aveva mai detto di rinunciare. Secondo Caracciolo, difficile che i russi possano anche soltanto discutere della restituzione della Crimea. “Se trattative ci saranno, saranno basate solo sul congelamento del conflitto – dice – a un certo punto le ostilità si fermano: tu sei qui, tu sei là, ci fermiamo e ci si regolerà secondo lo stato di fatto di conquista del territorio. La Crimea certamente no”. Stante la situazione sul terreno, all’Ucraina al momento è rimasta soltanto Odessa come sbocco al mare. La città portuale, peraltro, è stata colpita dai missili russi parzialmente. Come la capitale Kiev del resto, se si eccettuano gli attacchi alle infrastrutture (anche se nelle ultime settimane qualche missile è caduto anche in città). I russi non potevano permettersi di radere al suolo la capitale dell’Ucraina. Non potevano farne una Mariupol o una Volnovakha, rase quasi al suolo. Kiev riveste infatti un valore simbolico, storico e quasi “sacrale”. Probabilmente se Putin lo avesse fatto, si sarebbe attirato non solo la maledizione degli ucraini ma di buona parte dei russi stessi. In ogni caso, secondo il direttore di Limes, per Russia e Ucraina ci sarà poco da esultare, quando la fine di questa guerra arriverà: “Le risorse impiegate dalle due parti in guerra sono state enormi e forse alla fine di tutto questo, se le due parti saranno ancora in piedi, già la loro possibile esistenza sarà una vittoria o una sconfitta accettabile, a seconda dei casi. Se l’Ucraina non risulterà comunque distrutta, comunque vada sarà una potenza militare dell’area, un punto di riferimento di Washington in chiave anti-russa e sarà o nominalmente o di fatto, un Paese della Nato”.