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 2023  gennaio 06 Venerdì calendario

Lettere dal giovane Montale

Un nuovo carteggio si aggiunge ai numerosi epistolari noti di Eugenio Montale. È quello con lo scrittore, drammaturgo e critico teatrale Giuseppe Lanza, che viene pubblicato, a cura di Gianfranca Lavezzi, nel secondo numero (ricchissimo) di «Quaderni montaliani» (Interlinea editore). Siciliano di Valguarnera (vicino Enna), classe 1900, trasferitosi presto a Roma e dal 1922 a Milano assunto come impiegato al Credito Italiano. La sua biografia è ricostruita ne Il gatto di piazza Wagner (L’Orma), il libro del figlio Diego, grecista dell’Università di Pavia, alla cui morte, avvenuta nel 2018, le carte di famiglia sono state acquisite dalla Fondazione Maria Corti. Nella vita di Lanza padre (morto a Milano nel 1988) c’è l’abbandono del posto in banca, la nomina a capo redattore dell’«Illustrazione italiana», l’ingaggio nell’ufficio stampa Mondadori, una grave malattia dopo la perdita precoce della moglie, la vittoria del Premio Bagutta nel 1956 per un volume di racconti (Rosso sul lago).
Il primo contatto con Montale risale all’estate 1925 grazie all’amico comune Cesare Vico Lodovici, commediografo carrarese di un certo prestigio e successo, amico anche di Roberto Bazlen e di Giacomo Debenedetti, oltre che di Pirandello. Sono anni in cui i sodalizi e le lettere si intrecciano: Bazlen appunto, ma anche il poeta e critico Sergio Solmi, pure lui impiegato bancario (alla Banca Commerciale di Raffaele Mattioli), che a Milano avrà un rapporto di assiduo scambio con lo stesso Lanza, proprio mentre intrattiene con Eugenio una fitta corrispondenza. Intrecci da cui emergono insistenti le ossessioni del poeta che nel giugno 1925 aveva pubblicato, per la casa editrice di Gobetti, la sua raccolta d’esordio, Ossi di seppia. Ed è datata 1° luglio la prima lettera a Lanza di un epistolario che si estende fino al 1932, con un anno di silenzio nel corso del 1930 e un’appendice di due lettere nel 1946. In tutto, sessanta epistole.
Tra le preoccupazioni primarie, il lavoro, o meglio le difficoltà a «sbarcare il lunario», motivo ricorrente nello scambio con Lanza, come con Solmi, specie nell’ultimo periodo genovese: «Spero di impiegarmi a Milano, uno dei prossimi mesi, in qualche banca o azienda. È inutile continuare a farsi illusioni o sperare in chissà chi. Non appartengo alla categoria di persone che ottengono aiuti o appoggi. E ormai è tempo che metta la testa a posto», scrive nel giugno 1926. «Di questo passo – continua – finirei al manicomio, e molto presto. Spero di arrivare a una specie di atonia tranquilla e imbecille che mi permetta di soffrir meno. Non chiedo niente altro». Montale, trentenne, teme e sogna di «finire tra i burocrati». Per di più a Genova lamenta la solitudine: «Io vivo come una talpa, e non vedo nessuno». Il distacco dalla sua città e l’approdo a Firenze, nella primavera del 1927, come consulente dell’editore Bemporad, non migliora di molto il suo umore: «Poveri noi impiegati!», esclama pochi mesi dopo. «Mi diverte di saperla occupato per 8 ore al giorno. Sarà una cura letteraria enorme se riesce», scherzava da Trieste l’impiegato Ettore Schmitz, ovvero Italo Svevo, nel settembre 1927. Con la collaborazione alle riviste («Solaria» in primis) e poi con la direzione del Gabinetto Vieusseux, dal 1929, le angosce lavorative si diraderanno.
Intanto, però, si sono aperti gli scambi con gli amici sulla seconda edizione degli Ossi, che uscirà nel 1928 presso Ribet di Torino, e Lanza farà parte della schiera ristrettissima (con i soliti Solmi, Bobi Bazlen e pochi altri) dei primi lettori delle sei nuove poesie che Eugenio vorrebbe aggiungere alla raccolta. L’interrogativo, nel giorno di Ferragosto 1927, è: riproporre tale e quale la prima edizione o accrescerla con le liriche recenti («tutte un poco legate da una sottile ispirazione erotica»)? I passaggi per arrivare a questa seconda soluzione saranno tormentati, e tutte le opinioni intermedie e i ripensamenti strutturali sono ben testimoniati nell’epistolario con l’amico Giuseppe.
Siamo ormai nei pressi dell’incontro con la futura moglie, Drusilla Tanzi, che sarebbe diventata la Mosca di tante poesie, conosciuta nel 1927 e sposata con lo storico dell’arte Matteo Marangoni: nella sua casa in via Benedetto Varchi, dal giugno 1929 il poeta sarà ospite pagante. Ma c’è un’altra presenza femminile che compare nel carteggio con Lanza e che potrebbe accrescere quello che è stato brillantemente definito l’«harem metafisico» montaliano. Assiduo frequentatore estivo della villa Lodovici di Carrara, da lì il poeta, a bordo di una Bugatti, veniva scarrozzato dagli amici per divertenti «automobilate apuane» verso Bocca di Magra e Viareggio. A questo proposito, cogliamo il noto gusto montaliano del pettegolezzo, quando allude a un legame tra lo stesso Lodovici e una cantante lirica genovese di nome Bianca o quando si sofferma sulla turbinosa liaison semiclandestina tra Ginetta Varisco e l’amico Cesare. Fatto sta che nelle scorribande della memorabile estate 1924 doveva esserci anche Titina Rota, straordinaria figura di donna finora estranea alla cerchia montaliana ma ben conosciuta negli ambienti teatrali e musicali: milanese, nata nel 1899, cugina dell’allora enfant prodige Nino Rota, costretta da un infortunio a lasciare la carriera di violinista, quindi dedita poi alla grafica e all’attività di costumista alla Scala di Milano, poi passata al cinema e al giornalismo fino alla direzione del settimanale «Grazia» tra il 1942 e il ’43. Titina Rota, a cui il poeta manderà gli Ossi con dedica, ritorna con insistenza nei pensieri di Montale e nelle lettere al Lanza sin dal novembre 1926: «Indagami la signorina R., se mi conosce di nome». Donna indipendente, bella (a giudicare dalle fotografie), piena di interessi musicali e teatrali, era la stessa Titina a cui accennò Bobi Bazlen in una lettera inviata da Trieste all’amico Eugenio. Era l’estate 1926 e l’invito scherzoso alla «troupe» riservava una rivelazione: «Bevete molto, per ferragosto, e ricordatevi della Titina, cui ho disgraziatamente già fatto i corni, ma che è stata uno dei più grandi amori della mia vita».