Corriere della Sera, 6 gennaio 2023
Parla Peter Seewald, il biografo di Ratzinger
«La prossima volta ci vedremo in cielo», disse Benedetto salutandolo. Era il 15 ottobre scorso, l’ultima volta che Peter Seewald ha incontrato il Papa emerito al Mater Ecclesiae. Ex comunista e giornalista di Der Spiegel, Seewald ha accompagnato Joseph Ratzinger per oltre venticinque anni, diventando il suo biografo e stabilendo con lui un profondo legame personale e intellettuale, che lo ha spinto a rivedere le sue convinzioni.
Qual è il ricordo che conserva di quell’ultimo incontro con Benedetto?
«Soffriva. Era da tempo sulla sedia a rotelle, la sua voce si capiva appena. Ma lo spirito era ancora sveglio. Trasmetteva una grande tristezza per quanto accade in Europa, la guerra e la situazione della Chiesa. Gli ho chiesto, papa Benedetto, perché non ha ancora incontrato la morte? Mi ha risposto che sentiva di dover rimanere, come testimone di quanto rappresentava, un segnale della sua direzione, del messaggio di Cristo, della volontà di rafforzare la coscienza della fede e soprattutto di non pensare a adulterazioni e cambiamenti strutturali».
È sorpreso che dieci anni dopo le dimissioni da Papa, trascorsi nell’ombra, la sua morte abbia suscitato tanta commozione in milioni di persone?
«Per nulla. Anzi. Nonostante le molte critiche, in particolare nella sua Germania, me lo aspettavo. È il teologo più letto dell’età contemporanea, ogni suo libro su Gesù ha una diffusione di oltre 13 milioni di copie. Ovunque nel mondo si tengono simposi su di lui. Alcuni vedono in lui sempre il Panzerkardinal e l’identificazione della regressione, ma la maggioranza lo venera come un santo, un faro del cattolicesimo, un’icona dell’ortodossia. Bisogna ricordarsi anche che la sua opera era grande e significativa già prima del Pontificato. È il mondo intero a perdere una personalità straordinaria».
Lei sostiene che Benedetto ha scritto la Storia. Pensa alla sua rinuncia al Pontificato o anche ad altro? Quali sono stati i suoi meriti?
«Iniziano già da giovane teologo, quando ha portato un nuovo tono nell’annunciazione, un ritorno alle radici della fede cattolica, una rinascita e una nuova scoperta del Padre. La sua partecipazione al Concilio Vaticano II è stata fondamentale e viene spesso sottovalutata. Senza Ratzinger non ci sarebbe stato il Concilio nella forma che conosciamo. Anche la difesa dei suoi risultati autentici appartiene ai meriti di Ratzinger. A questa difesa ha dedicato la sua vita, lottando con coraggio. Non ultimo, è stato per 25 anni il più grande sostegno a Giovanni Paolo II nel respingere gli attacchi ai dogmi della Chiesa, senza curarsi della sua personale popolarità. Chi parla solo delle sue dimissioni ha la vista corta. Certo, anche questo è stato un atto storico e necessario, ma il servizio più grande reso da Benedetto è nella sua catechesi con le innumerevoli pubblicazioni, discorsi, encicliche, testi teologici. Questa supererà la prova del tempo ed è un regalo per la Chiesa di oggi».
Ma come spiega lei le molte critiche e i pregiudizi che lo hanno sempre accompagnato?
«Sin dall’inizio ci sono stati conflitti sulla vera interpretazione del Concilio. A Joseph Ratzinger vennero attribuite opinioni non vere, venne accusato di essere un traditore, un rinnegato che da teologo progressista si era trasformato in conservatore. Sono sciocchezze. Era contro i cambiamenti che non hanno a che fare col cattolicesimo. Ha sempre detto “abbiamo bisogno di rinnovamento nella conservazione”, quindi conservazione attraverso il rinnovamento. Così si va al nocciolo della teologia, senza per questo mettere in discussione ciò che vale in eterno. Per questo è diventato uno spauracchio. È un fatto che con le sue opere, la sua grande intelligenza e la sua forza teologica è stato così importante che i suoi nemici non si sono mai stancati di attaccarlo. E temo che sarà così anche in futuro».
Cosa pensa della definizione «reazionario» spesso usata per Benedetto?
«Non ci sono due Ratzinger, ce n’è uno solo: un teologo che pratica la teologia non contro ma con la Chiesa. Per scrivere la sua biografia ho intervistato più di cento persone che lo conoscono, sono andate a scuola con lui, hanno studiato sotto di lui, hanno lavorato con lui o per lui. E come giornalista che lo ha accompagnato per quasi 30 anni, sono convinto che questa definizione sia sbagliata. Certo, non era emotivo come Giovanni Paolo II o come lo stesso Francesco. Benedetto ha un suo carisma. L’ho conosciuto come persona molto umile, pensatore brillante che sa districare cose complicate, che viene incontro alle persone, che le ama, che si è posto al servizio della Chiesa per tutta la vita anche se aveva altri piani: si è sempre visto come teologo. Non voleva neppure diventare vescovo di Monaco e più volte da prefetto della Congregazione per la dottrina della fede ha offerto le sue dimissioni».
Da vescovo di Monaco è stato accusato da un’inchiesta indipendente di aver saputo e coperto almeno quattro casi di abusi sessuali. È un’accusa fondata?
«È ingiusta. Ci si concentra su un uomo, già definito spauracchio. Ma a ben vedere è stato sempre fatto troppo poco. Ratzinger però già da prefetto aveva affrontato il tema di petto, dicendo che occorreva far chiarezza invece di occultare, arrestare i colpevoli, aiutare le vittime. Una linea che ha proseguito da Papa, è stato il primo Pontefice a scusarsi, ricordiamo il monito durante la via Crucis del 2005 su quanto sporco c’è nella Chiesa, anche tra chi vi appartiene. Ha sospeso 400 preti dal servizio. Quanto alla perizia che lo accusa, è una perizia privata, non c’è alcuna prova che Ratzinger da vescovo di Monaco sia stato coinvolto nel singolo caso che gli viene contestato. La verità, come ha scritto il mio collega italiano Gianluigi Nuzzi, è che Benedetto “ha tolto il mantello del silenzio e costretto la sua Chiesa a guardare in faccia le vittime”. Lui le ha incontrate in ogni suo viaggio, è una cosa che gli stava molto a cuore. È stato il più grande dolore della sua vita. Si vergognava. Mi ricordo ancora le sue parole toccanti sulle vittime in Irlanda».
Com’era l’uomo Ratzinger?
«Non semplice da spiegare. Manteneva sempre una certa distanza, non era qualcuno col quale ci si scambiano pacche sulle spalle. Aveva una certa, forte nobiltà. Ma era capace di ascoltare più di chiunque altro io conosca, per nulla vanitoso a differenza di molti prelati, cordiale, compassionevole. Aveva una mente lucida, tagliente, ma aveva anche i piedi per terra, non ha mai dimenticato da dove venisse e ha sempre difeso anche la fede dei semplici contro la religione fredda di molti suoi colleghi. Era un uomo umile e senza pretese. Soprattutto negli anni da Papa emerito, quando si è sempre guardato dal rivolgere qualsiasi critica al suo successore, si è sempre avuta la percezione che di fronte a papa Francesco stava un Santo. Benedetto sarà insostituibile per il futuro della Chiesa».
Perché si dimise da Papa?
«Era sfinito, fisicamente. Credeva che il suo pontificato sarebbe durato due o tre anni. Si è dato per intero. È stato il primo Papa che nonostante la pesantezza dell’incarico ha scritto una cristologia. Non ci sono altre ragioni per le dimissioni, nessun ricatto come si specula. Nell’ultima lettera mi ha raccontato di nuovo, cosa non pubblica, quanto fosse malato, non solo agli occhi ma anche al cuore. Aveva un pacemaker. Non poteva continuare. Ma penso anche che abbia voluto coscientemente stabilire un punto per il papato della modernità. Era un passo dovuto da tempo. Ci ha pensato a lungo, ha interrogato Cristo. Ha soppesato la questione non solo in tutte le direzioni intellettuali ma anche in armonia con Cristo, del quale come vicario era rappresentante in Terra».
Ha collaborato Christina Ciszek