Corriere della Sera, 7 gennaio 2023
Gli 85 anni di Celentano
Come ogni extraterrestre che si rispetti, è arrivato sul nostro pianeta grazie alle comete. In occasione del suo 85esimo compleanno, celebrato ieri, è giusto ricordare che Adriano Celentano è nato due volte: la prima, il 6 gennaio 1938 in una modesta palazzina a due piani di via Gluck 14 a Milano. La seconda, in un giorno imprecisato del 1954, quando un amico arrivò di corsa nel negozio d’orologiaio del signor Tranquillo Galvani dove Adriano lavorava come apprendista e gli disse che era arrivata una musica nuova, il rock’n’roll di Bill Haley and the Comets.
«Quando l’ho sentito, è come se mi fosse entrato un fulmine nella testa», raccontò Celentano molti anni dopo all’amica Fernanda Pivano (nel libro Complice la musica, Bur). Elvis Presley non era ancora arrivato in Italia, i Comets di Haley erano ancora un fenomeno di nicchia che lui capì immediatamente e così Adriano, l’unico in famiglia a non cantare e a non aver mai suonato strumenti, diventò musicista. Partì dalla periferia, la sala da ballo della Cooperativa Filocantanti di via Arese, cantando L’orologio matto cioè Rock around the clock (la generazione successiva la conoscerà come sigla di Happy Days), in italiano, con quattro amici detti i «Rock Boys». Non renderebbe giustizia al giovane Celentano – e neanche al signore 85enne di oggi, che in casa ha ancora una stanza adibita a laboratorio d’orologeria: il suo vero mestiere, la musica è un hobby, dice spesso scherzando – classificarlo come genio spontaneo della musica, come fenomeno capace d’imparare in un istante il rock’n’roll senza sapere l’inglese e arrivando così a vendere 200 milioni di dischi attraverso sette decenni e a recitare in film campioni d’incassi senza aver mai formalmente studiato recitazione. A finire primo e secondo nello stesso Sanremo sottolineando pragmaticamente che se avesse portato tre canzoni sarebbe arrivato anche terzo, e a creare un fenomeno mediatico (e politico) con il suo Fantastico televisivo, quando ordinò al pubblico di spegnere la tv per 5 minuti e 8 milioni d’italiani (due terzi dei voti della Dc, il doppio del Psi) obbedirono.
Perché il genio di Celentano non esisterebbe senza il talento dell’orologiaio: smontare e rimontare un meccanismo complicatissimo per capire come funziona, come fece da ragazzino con il grande orologio del bar sotto casa che s’era rotto, e lo riportò in funzione nell’ammirazione generale. Smontare e studiare maniacalmente la chitarra dei Comets, la voce di Haley, il blues a 12 misure, l’ancheggiare di Elvis, la recitazione di Brando ne Il selvaggio, gli sketch di Jerry Lewis.
I suoi grandi successi — greatest hits come dicono quelli che a differenza di Celentano sanno l’inglese, ma non hanno venduto 200 milioni di dischi – sono troppi per elencarli, da 24.000 baci a Il tuo bacio è come un rock, ma basta Azzurro per riassumere tutto il Molleggiato: scritta da Paolo Conte, dal ’68 in poi è stata cantata da legioni di artisti in tutto il mondo, cover extra lusso da Mina a Régine, ma la versione di Celentano non è soltanto la prima, è in un certo senso l’unica (ci perdoni l’avvocato Conte, che resta uno dei grandi compositori della nostra epoca) perché diversa da tutte le altre, inimitabile in quel modo sfuggente che è la cifra di Celentano da quasi settant’anni.
Federico Fellini aveva capito tutto subito, vedendo su una rivista le foto di un concerto allo Smeraldo di Milano (oggi è un grande magazzino di alimentari) nel quale uno sconosciuto cantante rockettaro aveva provocato disordini tra i fans, e l’aveva convocato a Roma per La dolce vita. Forse per l’unica volta nella sua vita, intimidito davanti al maestro, tacque. Disse soltanto, quando Fellini spiegò che la protagonista era Anita Ekberg, «Urca», e bastò quello.
Sposato da 59 anni con Claudia Mori, tre figli (Rosita, Giacomo, e Rosalinda), disse 12 anni fa a Fernanda Pivano che il suo progetto per il futuro era quello «di saltellare ancora un po’», che è l’augurio migliore da dedicargli anche oggi.