Corriere della Sera, 7 gennaio 2023
Quando Vialli raccontò della sua malattia
L’intervista doveva essere sul libro. Un bel libro, ben scritto: del resto Luca Vialli, scomparso giovedì sera, era sempre stato un calciatore un po’ particolare. Famiglia benestante, uso del congiuntivo. Da ragazzo votava partito repubblicano, come l’avvocato Agnelli. Aveva un fratello di nome Maffo, come un antenato vissuto nell’impero austroungarico (la famiglia è originaria di Cles, in Trentino).
Il libro non era ancora uscito, c’erano solo le bozze. Raccontava un’interessante serie di storie sportive. L’ultima era la sua. La storia della malattia. Di cui nessuno, tranne i familiari più stretti, sapeva nulla.
Solo che nell’intervista Luca Vialli della malattia non voleva assolutamente parlare. Si convinse dopo ore e ore di discussione al telefono. Volle rileggere il testo, e chiese di togliere i dettagli più intimi.
«Di questa brutta cosa avrei fatto volentieri a meno – disse —. Ma non è stato possibile. E allora l’ho considerata semplicemente una fase della mia vita che andava vissuta con coraggio, da cui imparare qualcosa. Sapevo che era duro e difficile doverlo dire agli altri, alla mia famiglia. Non vorresti mai far soffrire le persone che ti vogliono bene: i miei genitori, i miei fratelli e mia sorella, mia moglie Cathryn, le nostre bambine Olivia e Sofia. E ti prende come un senso di vergogna, come se quel che ti è successo fosse colpa tua. Giravo con un maglione sotto la camicia, perché gli altri non si accorgessero di nulla, per essere ancora il Vialli che conoscevano».
Ogni tanto la conversazione si interrompeva, e per farla ricominciare si tornava sul calcio. Gli esordi in provincia: il Pizzighettone, la Cremonese. I no detti alla Juve di Agnelli, al Milan di Berlusconi, al Napoli di Maradona.
Era innamorato del presidente della Sampdoria, Mantovani – «ogni volta che uscivo dal suo ufficio mi pareva di camminare sulle acque» —, e lui era innamorato di Vialli e di Mancini, al punto da chiamare i suoi cani Gianluca e Roberto. Insieme vinsero il primo e unico scudetto della Samp. Arrivarono alla finale di Coppa Campioni, persa con il Barcellona a Wembley 1-0 ai tempi supplementari, e rigiocata da Vialli nei suoi incubi per quattro anni.
Con la Juve, invece, la Coppa la vinse, all’Olimpico; ai rigori, senza aver bisogno di tirare il suo. «Fu un sollievo infinito. Nello stesso stadio avevo sbagliato un rigore al Mondiale del ’90 contro gli Stati Uniti, e mi ero rotto un piede tirandone un altro contro la Roma. Quella notte sapevo che era la mia ultima occasione per vincere la Champions. Pensi gli incubi, se no».
Della Juve parlava con orgoglio: «Senti il peso della maglia, il dovere di riconsegnarla piegandola per bene e riponendola un po’ più in alto di dove l’avevi presa». Ma non si tirava indietro su Calciopoli: «Quella Juve avrebbe potuto vincere 6 o 7 scudetti su 10, rispettando le regole. Però poi la gola ha fatto sì che tentasse di vincerli tutti, non rispettando le regole».
Aveva fatto un grande Europeo nel 1988, ma ai Mondiali non aveva mai avuto fortuna: troppo giovane a Messico ’86, fuori forma a Italia ’90 – «a Schillaci riusciva tutto, a me niente» —, rinunciò alla convocazione a Usa ’94 per dissapori con Sacchi: «E ho sbagliato. La maglia azzurra non si rifiuta mai».
Era stato un grandissimo, ma gli piaceva sminuirsi: «Sono stato un centravanti fortunato. Ho corso per Mancini, Zola, Baggio, Del Piero…».
Alla fine tornammo sul discorso della malattia. L’intervento, otto mesi di chemioterapia, sei settimane di radioterapia. «Sono tornato ad avere un fisico bestiale» rise.
Si era appuntato una frase su un post-it giallo appeso al muro, da rileggere nei momenti più pesanti: «Noi siamo il prodotto dei nostri pensieri». Gli chiesi se pensava di vincerla, quella partita. Rispose: «L’importante non è vincere; è pensare in modo vincente. La vita è fatta per il dieci per cento di quel che ci succede, e per il novanta per cento di come lo affrontiamo. Spero che la mia storia possa aiutare altri ad affrontare nel modo giusto quel che accade».
Se ti arrendi una volta, diceva, poi diventa un’abitudine. «Vorrei che un giorno qualcuno mi guardasse, o mi pensasse, e dicesse: “È anche per merito tuo se non mi sono arreso”».
Per questo il modo migliore per onorare la memoria di Gianluca Vialli è non arrendersi mai.