La Stampa, 7 gennaio 2023
Le prigioni di Rosa Bazzi
Quando la incontro per la prima volta, Rosa Bazzi è una bambina di cinquantacinque anni. Ha i capelli ordinati in una treccia che le corre dalla sommità della testa, porta un maglione blu scollato a V e un paio di jeans. È piccola, di struttura minuta, quasi lo sviluppo non fosse arrivato al suo compimento. La pelle chiara riluce e mi chiedo come sia possibile, dopo quindici anni di carcere.
Sono entrata a Bollate insieme ad alcuni amici giornalisti, che hanno ottenuto un permesso per intervistarla. Arrivo all’appuntamento senza essermi documentata sulla vicenda di Erba, né in rete, né altrove, solo con l’eco dei ricordi radi e vividissimi della strage. Sono impreparata e a ogni passo mi maledico, se perdo dettagli? Momenti chiave? Se non riesco a entrare nella materia sottile del discorso? Ancora non immaginavo che negli anni a seguire sarei sprofondata dentro la sua storia. Quella mattina, senza saperlo, mi assicuravo un’impressione intatta di lei, un ricordo-sorgente a cui poter tornare in ogni momento della scrittura successiva.
Appena me la trovo davanti, cerco i segni della violenza agita: un movimento delle mani, uno sguardo affilato, una particolare intenzione nel parlare: non so cosa aspettarmi, non ho mai incontrato una persona condannata all’ergastolo per omicidio plurimo.
Il tempo previsto è un’ora, l’intervista parte male. Rosa è a disagio. Da dove è seduta non riesce a vedere il suo avvocato, presente con noi nella stanza. Si agita, si confonde, scoppia a piangere. Si alza dalla sedia e dice di volersene andare, l’avvocato cerca di calmarla. Ora è imbarazzata, si scusa, non vuole far perdere tempo a nessuno ma non se la sente più, credeva di farcela e invece si accorge che non è così.
Mi tengo in disparte, il suo sguardo mi intercetta. Istintivamente, accenno un sorriso. Dopo un’ora di negoziazione, accetta di parlare ma solo se seduta accanto al suo avvocato. Dalla mia posizione ho accesso diretto a tutto il suo racconto, posso osservarla da vicino e intuire ogni piccolo moto, ogni incertezza. Ritorno a lei, al corpo, alle mani. Ha le unghie rosicchiate, non tutte, solo mignoli e anulari. I suoi vestiti sono puliti. «Io non mi metto la tuta, voglio essere a posto» mi dirà un giorno, segnando una distanza tra lei e le altre detenute. Mi accorgo presto che a ogni domanda sa cosa rispondere, ma non dispone del vocabolario minimo e necessario per farlo. Fatica a trovare e pronunciare correttamente parole semplici, eppure nel suo errore c’è sempre un ordine, una ripetizione. Durante l’intervista spesso cerca i miei occhi, mi invita a suggerirle le parole. Sa riconoscere quelle che le servono con immediata ed euforica adesione o contrarietà. Quando indovino quelle giuste, esprime tutta la sua soddisfazione.
L’intervista si chiude dopo più di quattro ore, con grandissima fatica. Mi lascia un mal di testa fastidioso e il desiderio di uscire, tornare a casa, togliermi le scarpe, bere un bicchiere di vino.
Nel raccogliere il materiale e andare verso i saluti si scioglie qualche tensione, sono ancora seduta quando mi si para davanti nel suo metro e cinquanta.
«Lei come si chiama? Io sono Rosi». Vuole sapere se sono una giornalista, mi domanda perché io abbia parlato così poco, perché non le abbia chiesto niente.
«Non sono una giornalista, scrivo libri».
«E perché è venuta qui?». Dico la verità: «Per curiosità». «Ah, la incuriosivo».
Si allontana e mi lascia nel riverbero del nostro breve scambio. Mentre rimugino sulle conseguenze delle mie parole, si avvicina di nuovo: «Cosa ne dice di scrivere un libro su di me?».
Di nuovo, la verità: «Un libro è una cosa lunga. Di solito ci si prende tempo per decidere qualcosa di così importante». «Io di tempo non ne ho».
Non so niente della vita di un detenuto, non so ancora che vive esiliato dal tempo perché non può disporne liberamente, nemmeno in una parte minima. Con una prontezza che mi spiazza, nello spazio che si è creato, tende una mano: «Allora siamo d’accordo». Non riesco a tirarmi indietro, io vivo fuori e lei in carcere, sento tutto il peso di questo sbilanciamento tra noi. Gliela stringo. «Per me è come un contratto», dice. Ci lasciamo con l’impegno di vederci per cominciare il lavoro, le sorrido e mi chiedo dove mi sto andando a ficcare, per quale ragione, se davvero lo voglio.
Mentre cammino a vuoto nel parcheggio del carcere, cercando di ricordare dove ho parcheggiato l’auto, mi accorgo di provare un’eccitazione infantile, già immagino l’immersione nella sua vita, nella vicenda, il racconto, le parole. Rosa ha sentito il mio desiderio quando ancora viaggiava nel mondo invisibile delle possibilità, come un suono vergine, innocente.
Era il 9 aprile 2019. La incontro di nuovo l’8 luglio, in una giornata caldissima in cui non sta bene, ha un problema ai reni trascurato, trascinato. È pallida, suda appena, eppure è un fiume. Mi parla per due ore intense e senza pause: l’isolamento in cella durato tre anni e gli psicofarmaci per resistere, l’autolesionismo dei primi mesi, la detenzione separata da Olindo, il matrimonio con lui, la dipendenza e la devozione di lui per lei, il patto suicidario che hanno sigillato dopo l’arresto, la provincia nerissima di Como, la propria innocenza, la disperazione.
Torno ogni settimana, i nostri incontri cambiano, la relazione muta. «Ormai mi sfogo con te come con il prete», mi dice un giorno di novembre. Prendo in mano la storia di Rosi e contemporaneamente le carte, gli avvocati, la narrazione totale, pervasiva, monolitica che ne è stata fatta. Nel percorrere ogni passo sono risucchiata dalla sua vita e dalla ricostruzione dei fatti. A ogni snodo emerge con chiarezza la strada che ha portato al formarsi dell’opinione sulla sua identità. L’immagine di Rosi si è scollata dalla sua carne e ha preso vita autonoma, sostituendola. Rosi è stata bandita, disintegrata per far vivere Rosa Bazzi: "il carrarmato", "il mostro", "l’assassina feroce", "olindoerosa", "il quadrupede", "la maniaca", "la nevrotica oscura", "la madre mancata", "la donna delle pulizie diabolica e manipolatrice". Il fuoco dello sguardo cambia. Attraverso un progressivo spaesamento, sono assalita dal dubbio di me stessa, di dove e come si è formato il mio giudizio.
Come uno schermo nero, l’immagine di Rosi mi restituisce la nostra.