La Stampa, 7 gennaio 2023
Ecco la Quarta guerra mondiale
Sì, è proprio una reazione simile a quella di un ramo piegato e improvvisamente slegato. Il ramo riprende la posizione con tanta maggiore violenza quanta è stata la forza con cui è stato ritorto. Negli anni Novanta del Novecento la Terza guerra mondiale finì con la auto dissoluzione dell’Unione sovietica. Il grande nemico su cui poggiava l’equilibrio del sistema globale del secondo dopoguerra sparì in un modo inedito e apparentemente irrazionale, per implosione e non per sconfitta sul campo. C’era proficuo spazio per il millenarismo del trionfo dell’Occidente, o meglio degli Stati Uniti, e la fine di ogni possibile matassa ingarbugliata di Storia. Dopo trent’anni con la Quarta guerra mondiale in corso, di cui ci si avvicina l’anniversario del primo anno, il ramo torna violentemente al suo posto.
Evitiamo il solito catechismo di bugie sull’ampiezza limitata del conflitto. Gli ucraini sono soltanto la prima linea europea e ne sopportano le tragiche conseguenze. Ma la presenza anglo americana sul terreno si accresce in battaglie ormai telecomandate. Si combatte più silenziosamente negli Stati proletari del terzo mondo, Africa, Vicino oriente, secondo lo scenario della competizione tra i blocchi per le zone grigie, un classico che fu della Guerra Fredda. In attesa che la Cina, sempre cauta, apra i suoi fronti. Si torna alla contrapposizione frontale, guerresca, economica, direi umana, tra due schieramenti globali fondati su immaginari accuratamente cesellati dalla propaganda delle due parti come portatori del Bene e del Male assoluti. Qualcosa di primitivo che sembrava appartenere semmai alle guerre di religione e di cui si è fatta la prova nella fase più brutale della guerra al terrorismo.
Da una parte l’Occidente capitalistico liberale, saldamente tenuto in pugno da Washington senza cui Europa e satelliti asiatici sarebbero sguarniti dell’unica cosa che conta, la forza militare come avvenne contro l’Urss staliniana. Dall’altra l’Eurasia russo cinese con le insegne del capitalismo autocratico; che riprende la sfida alla superpotenza americana dal punto in cui l’aveva interrotta negli anni Novanta del secolo scorso. Primo assalto portato a riguadagnare quella che era la fascia di sicurezza, l’impero interno con Ucraina e Taiwan.
La Russia, a cui è sempre stato riconosciuta, anche nella Terza guerra mondiale, la caratteristica di potenza europea, questa volta, tagliata fuori dall’ Europa centrale dalla avanzata della Nato, deve volgersi alla componente asiatica: per necessità o per scelta. Perché quella immensa parte del suo impero, per risorse, territorio e vicinanza alla alleata ormai indispensabile, è più ampia e ricca.
Che guerra è questa, la quarta con scenario mondiale? Se Lenin fosse a Zurigo a scrutare come nel 1915 l’Europa in fiamme, sarebbe soddisfatto. Potrebbe riscrivere, con qualche marginale aggiornamento, il saggio L’imperialismo, fase suprema del capitalismo. Altro che geografia politica arcaica!
La guerra iniziata in Ucraina con la brutale, e disastrosa, aggressione russa è uno scontro classico di imperialismi. Qualcuno, appena uscito con qualche lacrima furtiva dalla "Belle epoque"’, ammette che gli imperi esistono ancora. Omettendo, per pudore, un diabolico "ismo". Gli imperialismi esistono eccome. Russia, Cina, Stati Uniti, come in modo scolastico constatò Lenin (confessò che l’aveva scritto in fretta quel saggio perché aveva bisogno di denaro nell’esilio svizzero) ricorrono alla guerra come conclusione obbligata delle loro evoluzioni economiche. Il rivoluzionario russo esulterebbe nel verificare che, anche cento anni dopo, la guerra è la conseguenza del crescere della oligarchia finanziaria e di categorie parassitarie, che siano gli oligarchi di Stato putiniani o i capital-comunisti cinesi o i plutocrati del libero mercato occidentale.
La guerra è il consumarsi sanguinoso della crisi della globalizzazione, il progetto di un sistema economico mondiale, a parole, inclusivo, in cui tutti, o quasi tutti, dovevano diventare soci o complici. Il tempo in cui economisti sentenziavano: «Due paesi che esibiscono i loghi di McDonald’s non possono farsi la guerra». E infatti c’era allora un posto a tavola anche per Putin e i signori di Tiananmen. Prevaleva, non dimentichiamolo, una grande svogliatezza per le ideologie della libertà. Non ci si assillava certo sulla questione prioritaria di dittature ora definite mostruose. Si pontificava di una civiltà orizzontale, diffusa, decentrata, di densità omogenea. Incantevole. Ma non ha funzionato.
Altro che spengleriana crisi dell’Occidente! Semplicemente alcuni soci di questa globalizzazione "aperta’’ ne hanno approfittato, per riarmarsi come la Russia o per passare dall’economia volontaristica degli altoforni alimentati con le padelle a prima potenza economica mondiale come la Cina. Hanno chiesto ad alta voce e in modo prepotente il riconoscimento dei nuovi equilibri.
I custodi del tempio del libero mercato intanto si coprivano di debiti e contemplavano il panorama tetro delle loro economie. All’imperialismo dei vecchi soci di affari era il momento di opporre quindi l’imperialismo della virtù, le etichette di impero del Male. Niente di originale per Biden. Nel 1917 un altro presidente democratico, Wilson, portò gli Stati Uniti nella Prima guerra mondiale, mischia sanguinosa di voraci imperialisti, dichiarando che agiva «per assicurare la democrazia sulla terra». L’essere missionari purtroppo torna di moda.
È già pronta la nuova globalizzazione bellica, quella che viene definita "friendshoring". La si farà con i Paesi su cui gli americani possono contare, quelli che accetteranno, riconoscenti e obbedienti, i cantucci e lo spartito della integrazione economica senza alzare pretese geopolitiche. Si esigono di nuovo omologazioni, ratifiche, consacrazioni che fino a ieri si praticavano con indulgenza, a manica larga. La tessera di ingresso sarà il premio, innanzitutto, per l’eroico Volodymyr Zelensky. Lo ha ben meritato.