La Stampa, 7 gennaio 2023
L’ultima intervista del “corvo” Paolo Gabriele
Incontrai per l’ultima volta prima che morisse Paolo Gabriele, l’aiutante di camera di Benedetto XVI, soprannominato da Wojtyla Paoletto, su una terrazza romana quando già era ammalato. In quell’occasione mi svelò la guerra nei sacri palazzi tra chi voleva reintegrarlo dopo lo scandalo Vatileaks e chi lo voleva in esilio. Un illuminante scontro ai massimi livelli che testimonia come questa storia vada ancora scritta, aldilà di qualche visione revisionista che tende a dipingerlo non come colui che rese noto il malaffare, ma come un semplice ladro di documenti.
È pentito di aver fotocopiato per mesi nell’inverno del 2011 le carte segrete sugli scandali vaticani dalla scrivania di Ratzinger e avermele date per un mio saggio?
«Non sono pentito di aver perso tutto quello che ho perso: non ho perso niente di bello, è una situazione che mi ha fatto ammalare quindi come posso rimpiangerla? Quando vedo papa Francesco e i due suoi aiutanti, di certo penso che potrei essere a loro posto gratificato di poter vivere vicino a Francesco e poterci parlare, come con Ratzinger, ma se non ci fosse stato tutto questo casino non ci sarebbe stata in conclave quella spinta tale da compiere un passo così importante e portare Bergoglio ad essere eletto pontefice. Benedetto XVI mi concesse la grazia soprattutto per ridare tranquillità e sicurezza alla mia famiglia ma non tutti erano d’accordo e infatti fui mandato a lavorare a mille euro al mese in una cooperativa fuori le mura dove non svolgevo alcuna attività. Ma sapevo come sarebbe andata a finire, altro che tranquillità ritrovata: per sei mesi andavo lì e non mi facevano fare niente. Volevano farmi scoppiare la testa per vendicarsi…».
Chi voleva che le saltassero i nervi, chi che venisse reintegrato in vaticano e lei cosa ha fatto?
«Il cardinale Paolo Sardi diceva di pazientare ma io non ce la facevo più e così scrissi una lettera nell’inverno del 2013 al cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, che avevo conosciuto da monsignore, per chiedergli un incontro. Rimanemmo insieme quasi tre ore, al termine disse "Adesso vedo se riesco a trovare un’alternativa a questo impiego. Ne parlerò al sostituto Becciu (Angelo Becciu, il cardinale finito poi a processo pper la compravendita del palazzo a Londra, ndr)". Io gli risposi: "Se ne parla con Becciu non servirà a niente perché era stato proprio lui a decidere questa soluzione". Volevo mollare, cercare lavoro da solo ma Sardi si arrabbiò tantissimo: "Se te ne vai non ti potrò più aiutare, prosegui e lascia aperto uno spiraglio per il futuro. Le cose potranno cambiare qualora se ne andranno certi personaggi che stanno ancora là…"».
E Parolin?
«Parolin mi richiamò dopo un paio di mesi e mi dissee "Paolo, purtroppo non si può fare nulla… Ho sondato il terreno ma non è possibile un tuo ritorno…". E scopro un retroscena: Parolin e l’assessore per gli affari generali della segreteria di Stato, il diplomatico Peter Bryan Wells (dal 2016, nunzio apostolico in Sud Africa, ndr) erano d’accordo per un mio reintegro ma Becciu si continuava ad opporre. A questo punto informo Ingrid (suor Ingrid Stampa, tedesca, già governante di Ratzinger e una delle persone a lui più vicine, ndr) che in maniera molto scaltra ne parla con Benedetto XVI al telefono: "Ho saputo che il cardinale James Michael Harvey (statunitense, dal 2012 arciprete della Basilica di San Paolo fuori le Mura, ndr) vuole aiutare Paolo e in effetti c’è la possibilità di lavorare lì da lui ma ci sono molte resistenze; il sostituto si oppone perché pensano che riprendere Paolo sia uno sgarbo nei suoi confronti, Santità"».
E Benedetto cosa rispose?
«Che io come tutti ho diritto a una seconda opportunità. Chiese di dire al cardinale Harvey di avere coraggio. Ingrid si autorizzò a riferire questo desiderio e, sempre da quanto mi disse, lo condivise con Parolin: "Benedetto XVI è d’accordissimo". Il segretario di Stato ringraziò e informò Francesco».
E poi?
«Finito a casa il rosario con i ragazzini, suona il campanello… era Ingrid che era venuta ad abitare a fianco a noi… era contentissima: "Pensa che stasera in vaticano ho incontrato Harvey, mi ha chiamato da parte per confidarmi che Becciu gli ha comunicato: ho l’incarico da parte di papa Francesco di dirle che può procedere a richiamare Paolo a lavorare"».
L’avevano accontentata…
«No, anzi. Harvey chiese se potevo essere reinserito in organico e Becciu gli avrebbe risposto: "Eh no questo il papa non l’ha detto". Come dire: se Harvey vuole aiutare Paolo lo faccia ma senza stipendio vaticano. E come si fa? Così tutto si blocca. Arriva il licenziamento dalla cooperativa nel marzo del 2015 ma per farmi tornare a casa intervengono anche altri…».
E chi?
«Il cardinale elemosiniere del papa, Konrad Krajewski veniva a trovarci a casa e mi suggerì di andare da Parolin per raccontare tutto quello che stava accadendo: "Nel caso intervengo con il santo padre". Mi confrontai con Parolin, che, saputo del licenziamento mi chiese: "Ma adesso la tua famiglia come farà?". E io: "Come abbiamo sempre fatto, sperando nella divina provvidenza… Ma poi, secondo lei eminenza posso sperarci ancora? E lui: "Sono in imbarazzo perché Harley ti vuole molto bene ma riconducendoti alla santa sede, l’opinione pubblica non gradirebbe… Non bisogna stracciarsi le vesti ma è stato fatto male a molti e molto". Io rimango impietrito e gli dico: "Ma ho pagato e sto pagando… cosa altro devo fare, non esiste il perdono, la riconciliazione vera?". E lui: "Eh ma sai non è facile, adesso vediamo cosa possiamo fare". Poi a giugno 2015 Sardi scrive al papa, arrivano altre preghiere e la situazione si sblocca. Incontro Harvey: "Parolin mi ha detto che i due papi sono d’accordo, don Giorgio non si è opposto, Becciu ha preso atto". E così lavoro lì dal primo luglio 2015. Curo l’archivio».
Quando Ganswein l’accusò di aver fotocopiato i documenti di Ratzinger lei come reagì?
«Il mio confessore era stato molto chiaro: "Se non è il papa a chiedertelo, nega sempre"».
Poi ci fu l’arresto…
«I gendarmi a casa trovarono un archivio delle mie ricerche sui servizi segreti, massoneria, avevo l’intera collezione di Gnosis, la rivista ufficiale della nostra intelligence…».
Non è un po’ strano che il maggiordomo del Papa nutra questi interessi?
«Cercavo di capire l’origine di certi mali che incontravo nella vita quotidiana in curia».
Qualcuno ha subdorato che lei lavorasse per qualche intelligence…
«Mi sento un infiltrato dello Spirito santo che, se vogliamo, è l’intelligence della Chiesa… (ride, ndr). In realtà, se avessi fatto parte di qualunque organizzazione, sarei stato soggetto a riferire ai superiori, quindi non avrei potuto fare quello che ho fatto. Invece, sono un uomo libero… Poi, chieda a mia moglie quando la stampante si inceppava… Non essendo un criminale né essendo stata un’azione scientifica quello che hanno trovato a casa è la prova della mia genuinità».
Poi è stato arrestato…
«Ricordo che il capo della gendarmeria Domenico Giani venne subito da me, era preoccupato del dossier sulla Orlandi».
Cioè?
«Era impaurito dal fatto che fosse stato fotocopiato. In effetti, sul tavolo di don Giorgio un giorno vidi questo piccolo fascicoletto appena arrivato, fatto da Giani su carta semplice, dal titolo Rapporto sul caso Orlandi. Non lo toccai perché era composto da qualche pagina spillata… avrei dovuto girare i fogli e si sarebbero notato che era stato rovistato».
E il futuro?
«Sono fiducioso in Vaticano cambiano le cose in modo repentino… spero in una rivincita personale, nessuno me la può negare… basta che in certi ruoli o incarichi vada chi ha coraggio».
Ma Paoletto nel novembre del 2020 muore, a 54 anni.