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 2023  gennaio 07 Sabato calendario

In morte di Gianluca Vialli

Paolo Condò per la Repubblica
Ora che è arrivato il momento di lasciarlo andare, rimandato per cinque anni perché noi — affezionati e anche egoisti — l’abbiamo trattenuto almeno quanto lui ha resistito al male, Gianluca Vialli si stacca dalle sue pene seguendo l’insolita prospettiva di chi, allontanandosi, ingigantisce anziché rimpicciolire. C’è una tristezza fitta come nebbia padana sullo sfondo di questi pensieri: il calcio sa essere un mondo di mostri — aprite un social a caso dopo una partita importante, e scenderete nei suoi abissi — ma è dotato di un sesto senso unico nell’individuare le poche figure realmente meritevoli. Gli antieroi capaci di sopravvivere alla retorica del bomber irresistibile, e a portare al giorno del giudizio la loro umanità più sincera. Luca ha vinto tanto e perso altrettanto, da grande campione qual è stato, ma oggi di lui ricordiamo innanzitutto un abbraccio, il gesto umano per eccellenza. Il dolore che si respira ovunque è un muro alto e possente con la parete liscia, non ci si può in alcun modo aggrappare, né tanto meno arrampicare. Lo si contempla, nella sua maestosità. Nella sua compattezza.
Luca Vialli ha concluso la sua esistenza bellissima con cinque anni di grande sofferenza dei quali, però, non ha sprecato nemmeno un minuto. Non stiamo parlando solo del sostegno a chi affronta la sua stessa malattia — a proposito, oggi lui odierebbe ogni riferimento al “male che non perdona”, pensando al morale di chi lo sta affrontando; e avrebbe ragione perché una percentuale di salvati, sia pure non grande, esiste — ma anche della capacità suprema di un campione: quella di ispirare. Secondo il dizionario ispirare significa infondere nell’animo di chi ti ascolta i pensieri e i sentimenti che ne determinano le successive azioni, e quando abbiamo visto il filmato della sua lettura di un discorso di Roosevelt agli azzurri prima della finale europea è esattamente lì che siamo andati. Vialli ispirò una squadra di ragazzi coraggiosi a oltrepassare il limite che lui aveva varcato in un altro senso, quello del tempo: vivere quei 90 minuti — poi 120 con l’aggiunta dei rigori — come se nulla esistesse prima e dopo, sentendosi appagati dall’aver dato tutto prima che dal risultato. Kipling in purezza, e del resto la concezione anglosassone dello sport gli è sempre stata propria.
Le connessioni sono uno dei temi dominanti la modernità, il bisogno di immanenza che si insinua nelle pieghe di una vita sempre più high-tech. E quale connessione può essere più evidente dell’abbraccio di gioia a Wembley fra Luca Vialli e Roberto Mancini, i dioscuri per eccellenza del nostro racconto calcistico, dopo la finale dell’Europeo 2021 vinta sull’Inghilterra? Quasi trent’anni dopo le lacrime disperate nello stesso stadio, dove la Samp aveva perso dal Barcellona la finale di Champions. Ecco, se l’amicizia è una connessione più forte persino dell’amore, perché meno esposta alle intemperie del quotidiano, l’esempio ricevuto quella sera aumenta ora la commozione e la malinconia, ma nel tempo tornerà a farci sentire meglio. A ispirarci una telefonata in più piuttosto che in meno a un vecchio amico.
Se questi anni di cure e di tempo «da non perdere in stronzate» — parole sue, ricche di senso — ci restituiscono l’immagine di un Vialli saggio e serio, è giusto che i più giovani sappiano di come, nei suoi anni da campione, Luca fosse un monumento alla spensieratezza e al divertimento. Condiviso soprattutto con la banda di allegroni della Sampdoria di Mantovani e Boskov, ma che certo non venne meno nelle stagioni da capitano della Juve, che implicava ben altre responsabilità («vincere altrove è una gioia, in bianconero è un sollievo»: nessuno ha spiegato meglio la differenza). Si rincorrono nella memoria episodi comici e picareschi, politicamente scorretti forse, ma irresistibili, figli di un’epoca in cui il rapporto fra calciatori e giornalisti era molto più semplice di oggi. E i racconti dell’infanzia agiata, dell’educazione attenta, delle corse in vespa sull’argine del Po, di quando Brera lo chiamò Stradivialli, dell’iniziale rinuncia ai club metropolitani perché in Riviera si viveva troppo bene, della favolosa Under 21 di Azeglio Vicini, del gol alla Spagna a Euro 88 con corsa successiva in panchina a dare il cinque a tutti i compagni schierati in fila, dei frammenti di un discorso amoroso con una soubrette, del flop di Italia 90 dopo l’improvvida citazione da John Belushi su quando il gioco si fa duro, del dissidio con Sacchi e del rifiuto di tornare in Nazionale, della Champions con la Juve prima di andare a scoprire la Premier, del suo prezioso lavoro di talent a Sky, «voglio essere il Gary Lineker italiano» e lo fu davvero.
Della notte del suo matrimonio, una sera di fine estate del 2003, col party organizzato nella splendida dimora familiare di Grumello Cremonese. A un certo punto lui e Cathryn invitarono gli ospiti in giardino, anche con toni spicci perché qualcuno s’attardava al banco liquori, e quando furono tutti fuori al chiaro di luna, da un séparé montato fra gli alberi saltò fuori Lionel Richie. Nel tripudio generale attaccò le prime note di All Night Long, e ballammo davvero per tutta la notte, senza sprecare un minuto. Quella musica resterà per sempre nell’aria, a ricordarci una vita piena, forte, bella, gloriosa e festosa. Terribilmente breve.


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Gigi Garanzini per La Stampa

Scrisse una volta il sommo Brera che i campioni meriterebbero di morire giovani, nel pieno della loro gloria, ed essere trasportati in Olimpo su un carro di fuoco. Per uno sberleffo del destino toccò proprio a lui quella sorte, già in età surmatura. Da allora il paradosso breriano è un tormento in più che si somma al dolore quando uno dei grandi se ne va.
Perché nella rétina come nella mente è sul campo che torniamo a riviverli, ai tempi in cui ci facevano battere il cuore. Quando Vialli la insaccava sotto la sud di Marassi, e se non erano svelti ad abbracciarlo lui partiva con le capriole e c’era rischio che esondasse il Bisagno là fuori. Quello scudetto impossibile, firmato da un grande presidente, Mantovani, dalla saggezza dello zio Vujadin, da una signora squadra le cui punte di diamante si chiamavano Mancini e Vialli. Il cui abbraccio di un anno e qualcosa fa sul prato di Wembley, dove avevano perso al fotofinish una finale di Coppa Campioni e appena consumato la rivincita firmando l’Europeo, rimane un’immagine indelebile e struggente. Oggi poi insopportabile. Perché tutti e due sapevano, non solo Gianluca, che il destino restava in agguato.
Adesso che ha fatto il suo corso, il primo sforzo da compiere è proprio quello. Rimuovere il ricordo più recente della lunga sofferenza e ripercorrere il cammino del vero Vialli. Quello partito da Cremona, e da lì a proposito di Brera lo strepitoso ri-battesimo, Stradivialli, e atterrato da capitano bianconero sull’ultima Champions della Juve, 1996. Con un’appendice di grande prestigio al Chelsea, in campo e in panchina, sino alla definitiva scelta di vita londinese. Il carattere non gli mancava di sicuro. Dentro e fuori il rettangolo. Il primo, e più significativo esempio, è che si diceva e si dice essere la fame il vero propellente di un calciatore, di un’atleta. Di famiglia agiata, Vialli la fame non l’ha mai nemmeno immaginata. Ma non è facile trovarne un altro che in campo si sia sempre speso come si spendeva lui. Che trascinasse, anziché farsi servire: che ci mettesse sempre il massimo della quantità anche nelle rare giornate in cui la qualità non era la solita. Un centravanti a tutto campo, ala destra in origine come già era accaduto a Paolo Rossi, dotato in egual misura di agilità e di potenza. Con il gusto, a volte il vezzo anche dell’acrobazia. Era stato Vicini, a sua volta ex-doriano, il primo ad accentrarlo nell’Under 21: figurarsi se Boskov, che con Azeglio aveva giocato, si lasciava sfuggire l’intuizione.
In quella seconda metà degli Ottanta la Samp faceva collezione di Coppe Italia. Grasso che colava, come no, ma quelli nel frattempo di erano messi in testa l’idea meravigliosa. Così quando Berlusconi mise sul piatto un’offerta delle sue, Mantovani chiamò a sé Vialli, Mancini e Vierchowod e chiese loro se se la sentivano di restare e provarci, con opportuni rinforzi. Vialli col Milan una mezza parola l’aveva spesa. La girò sul versante Fininvest, e me lo ritrovai in un programma settimanale. Che bel tipo. E quanto calcio ho imparato, troppo tardi ahimè, in sala di montaggio. Rallenta, torna indietro. Come fa a non essere rigore, se il piede davanti è quello dell’attaccante? Sai che mazzo mi faccio io a smarcarmi di qua e di là sempre con l’idea fissa di metterci il piede per primo? Anni ’80, per l’appunto: oggi toccherebbe rifare l’audio perché smarcarsi è diventato attaccare lo spazio.
Il meglio di sé televisivo lo dava con Fazio, blucerchiato nel midollo, quando una volta l’anno andava da lui con Mancini. Ma è stato poi un’opinionista di spessore vero negli anni di Sky, la cui costola italiana aveva contribuito a creare per via dell’amicizia con Murdoch.
Quante cose è stato Vialli. Vogliamo parlare della Fondazione Vialli e Mauro per combattere la Sla? Pensata, creata e sostenuta nel nome della ricerca e della solidarietà, quando ancora il tempo del dolore, della sofferenza personale era ben di là da venire. Dell’eleganza e insieme della sobrietà con cui si è calato nei panni del capo delegazione azzurra, quando già la grande battaglia era in corso e figurarsi se il gemello Mancio non si inventata l’assist per aiutarlo a combatterla. E quante ne son rimaste nella penna perché quando ti prende alla gola, il magone è il peggior nemico della memoria.