la Repubblica, 7 gennaio 2023
Quell’abbraccio di Vialli con Mancini
Qual è il senso di una fine? Che cosa definisce una vita? La quantità del tempo che accumula, la qualità dell’operato, la forza del ricordo che lascia? Che cosa può fare un uomo quando gli restano da scrivere le ultime pagine e il libro della sua esistenza è quasi compiuto? Nelle sale cinematografiche si proietta un commovente film il cui titolo è Living. È il remake molto inglese di una pellicola del regista giapponese Akira Kurosawa. Un perfetto Bill Nighy interpreta la parte di un funzionario e gentiluomo, composto e inossidabile, con gessato e bombetta. Finché gli viene annunciato che gli restano da vivere sei, al massimo nove mesi. Ha un cancro, «qui» dirà, indicando un punto indefinito nel proprio ventre. Che fare, ancora? Quest’uomo racconta di aver osservato spesso i bambini giocare nei cortili e di essere rimasto colpito dalle diverse reazioni quando le madri li chiamano per rientrare a casa. Qualcuno si muove immediatamente, come non avesse aspettato altro. Qualcun altro reclama, chiede un tempo supplementare.
Lui si è sempre sentito un uomo della prima specie, ma l’annuncio della morte imminente lo induce a voler diventare, riuscendoci, uno della seconda. Non solo per esorcizzare la fine, ma per dare un senso a quel che rimane, fare ancora qualcosa: che resti, che serva, che insegni. Gianluca Vialli è stato un uomo così: un vincitore alla fine dell’ultimo supplementare.
Tutte le nostre esistenze sono brevi eccezioni. Nell’indifferenza del cosmo la regola è il nulla, il silenzio, non essendoci vita non si contempla la morte né come inevitabile conseguenza né come dramma. La specie umana ha costruito l’arco narrativo, che per una convenzione da combattere, inizia nella gioia e termina nel dolore. Sulla strada, anche e soprattutto quando il passo affronta l’ombra, ha seminato possibilità di riscatto, individuali e collettive. C’è stato anche per Gianluca Vialli il giorno dell’annuncio, la rivelazione della presenza di un male con cui da lì in poi convivere, fin quando fosse stato possibile. A quel punto un uomo apre il guardaroba delle ultime cose, prende un cappello e copre la procurata calvizie, prende la dignità e copre la debolezza (non la fragilità, quella va anzi esposta perché è un marchio della specie), prende il coraggio e copre la paura. Poi cerca la chiave più importante, quella che entra nella serratura del cassetto segreto.È lì che si ripongono il sogno impossibile, la chiusura del cerchio, il significato personale eppure universale. Per ricordare Gianluca Vialli la prima immagine che tutti hanno scelto, dai notiziari alle vignette sulla testa di chi cammina per strada e sente l’annuncio, è l’abbraccio, quello tra lui e Roberto Mancini, a Wembley, ventinove anni dopo. Che cosa mostra?
Due uomini che hanno vinto. Acqua. Non basterebbe per farla entrare nel cuore di chiunque senza bussare. La vittoria è una parente di secondo grado della rivincita. Se vinci e basta non saprai mai come sarebbe stato non farlo. Non passi attraverso il fuoco. Non hai la cicatrice che segna il volto e la direzione. Sei soltanto sano, sorridente, imbattuto. Ventinove anni prima in quello stesso luogo Gianluca Vialli, con Roberto Mancini, aveva perso. Era una finale di Coppa dei Campioni. C’era(no) arrivati a cavallo di un destriero inesistente, blucerchiato, disegnato da un bambino visionario: la Sampdoria contro il Barcellona. Il tabellino dice che persero ai tempi supplementari. Rete di Koeman al minuto 112, otto alla fine. Il verdetto di Wembley è considerato di cassazione. Lì non si ritorna per rovesciarlo. Infatti, quattro anni dopo, Vialli sollevò la coppa dopo aver vinto la finale della ribattezzata Champions League. Ma era l’Olimpico. E non c’era Mancini. Era il capitano, ma della Juventus. Ero presente, lo ricordo: ho visto un uomo felice. Nell’abbraccio di Wembley 2021 quel che tutti possono vedere è un uomo arrivato nel nucleo esatto della felicità. Il viaggio è stato lungo, il pedaggio alto, ma la precisione imposta dal destino è stata superiore a quella di qualunque aggiornato navigatore. Bisognava tornare lì, di fianco a fratello per elezione e giocare oltre ogni tempo. Il dettaglio chiave è questo: la finale del 1992 finì ai supplementari, quella del 2021 ai calci di rigore. Come fosse stata una preghiera esaudita: giocare ancora un po’ per far succedere quella cosa che mette a posto tutto, prima di andare. Vivere, per dare un senso alla fine, è: riparare un torto, completare un’opera, regalare l’ultimo desiderio. Nella sequenza conclusiva dell’abbraccio, Roberto Mancini ha gli occhi aperti e la testa eretta, Gianluca Vialli ha gli occhi chiusi e gli posa il capo sulla spalla. È bello, ma ancor più è giusto, pensare che, come il Giobbe di Joseph Roth, si stia riposando, “dal peso della felicità e dalla grandezza dei miracoli”.