La Stampa, 5 gennaio 2023
Intervista alla scrittrice Lily King
Lily King abita in una delle quindici città degli Stati Uniti che si chiamano Portland. Per l’esattezza, nella seconda più celebre: la prima è la Portland dell’Oregon, a ovest, la sua è quella del Maine, affacciata sull’Atlantico. Vive insieme al marito e alle due figlie, ed è una scrittrice molto apprezzata. Queste cose, la famiglia e il mestiere della scrittura, non era scontato succedessero, anzi. King per molti anni è stata una cameriera senza l’ombra di una storia d’amore, e a un certo punto s’è detta che solo una sciocca poteva continuare a credere nei sogni che aveva lei. Sbagliava.
Fazi ha da poco pubblicato la sua prima raccolta di racconti, Cinque martedì d’inverno (tradotta da Mariagrazia Gini), che arriva dopo cinque romanzi. Due di questi l’hanno consacrata: Euforia ( Adelphi), dedicato alla storia dell’antropologa Margaret Mead e ai suoi studi che ispirarono la rivoluzione sessuale degli anni ‘60; Scrittori e amanti (Fazi), in cui King traspone molto della sua storia di cameriera e aspirante scrittrice a cui la vita a un tratto cambia.
Quando si è resa conto che voleva fare la scrittrice, e perché?
«A otto anni lessi Judy Blume: realismo magico per bambini, negli anni ‘70. Mi sembrò una cosa di una bellezza rara ed elettrizzante. Capii che dietro quel libro c’era una persona che l’aveva pensato, creato, e mi dissi che volevo fare lo stesso. Mi convinsi che avrei scritto solo libri per bambini. Dopo, leggendo Salinger, Faulkner e Virginia Woolf, cambiai idea».
Ha detto più volte che scrivere comporta un grande sacrificio economico. La protagonista del suo Scrittori e amanti per mantenersi fa la cameriera, proprio come ha fatto lei a lungo.
«Sì, e quando ho compiuto trent’anni, e lavoravo ancora come cameriera, me ne vergognavo. Mi dicevo: perché non riesci a lasciarti alle spalle il sogno di scrivere? Era il mio più grande desiderio, perciò non ho mai provato a fare nient’altro, cioè niente che potesse darmi una stabilità economica togliendomi però il tempo di dedicarmi alla scrittura. Ero sempre senza soldi. A un certo punto ho insegnato inglese al liceo, e ho fatto la commessa in libreria. Ma non ho ceduto alla tentazione di trovare un impiego in un ufficio, come facevano tanti miei amici. Ho iniziato il primo romanzo nel 1991 e l’ho finito nel 1997. A quel punto avevo 34 anni e la mia vita era un disastro. Non ne potevo più di lavorare come cameriera, volevo una storia d’amore ma non arrivava, soffrivo di attacchi di panico. Non vedevo una via d’uscita: poi però è arrivata. Ho venduto il romanzo, mi sono innamorata, sono diventata madre, e tutto questo in meno di un anno».
Che impatto ha avuto sul mestiere di scrittrice diventare madre?
«Per me è stato un regalo, perché il centro del mondo si è spostato da me ai figli: il mio cuore si è ingrandito e questo mi ha aiutata anche nel lavoro . Prima perdevo un sacco di tempo che avrei potuto usare per scrivere. Quando sono nate le mie figlie ho capito che le ore da dedicare alla scrittura sarebbero state così poche che dovevo sfruttarle al meglio. Così ho cominciato a scrivere anche se non ne avevo voglia, anche quando mi faceva schifo il risultato».
Qual è la cosa che più l’ha colpita di Margaret Mead?
«A colpirmi è stato un colpo di fulmine, letteralmente: quando Mead andò in Papua Nuova Guinea con il suo secondo marito, incontrarono l’unico altro antropologo presente nel paese, Gregory Bateson. Il marito si ubriacò e si addormentò, e intanto Mead e Bateson parlarono per trentasei ore e si innamorarono follemente. Cercarono di far finta che non fosse successo niente, ma presto la situazione diventò una bomba sul punto di esplodere».
Secondo lei l’essere innamorati influisce sul lavoro? E sulla scrittura?
«L’innamoramento è uno stato mentale molto ispirato, ma da non innamorati si scrive di più e meglio».
Suo padre era alcolista, e lei dice spesso che questo ricordo è venuto a farle visita nella scrittura.
«Sull’alcolismo, e in generale sulla dipendenza da sostanze, torno spesso: è uno strano tic. Il fatto che mio padre bevesse ha segnato la mia infanzia. Ho ricordi molto vivi di lui ubriaco, della rabbia che montava. Mi risulta difficile scrivere di padri non alcolisti: nei mie racconti ce ne sono solo due. Non so da dove siano spuntati».
Prima di questi racconti ha scritto cinque romanzi. Hemingway diceva che uno scrittore di racconti è un altro tipo di scrittore.
«Ho scritto racconti per anni prima di avere il coraggio di cimentarmi con un romanzo, e mi ritengo innanzitutto una scrittrice dedita alla forma breve. Ho molte abitudini legate al racconto che escono fuori anche nei miei romanzi: la precisione nella lingua, i dialoghi concisi, l’interesse per gli oggetti e i momenti più piccoli. Le storie contenute in questa raccolta sono state scritte tra un romanzo e l’altro: era un po’ come prendersi una pausa rigenerante. ».
Qual è il posto che ama di più al mondo?
«La costa del Maine, dove abito. L’oceano non mi basta mai. Ho la fortuna di vederlo ogni giorno e questo mi fa sentire fortunatissima».
Che cosa le dà stabilità?
«L’amore, la salute, avere denaro a sufficienza per vivere. E una tazza di tè molto forte la mattina».
Quali sono gli ostacoli che s’incontrano quando si scrive? E come si protegge il proprio talento?
«L’autocritica feroce. I pensieri dannosi. Tanta gente mi dice che non scrive perché non ha tempo, ma non è mai il vero motivo. Ci sono, piuttosto, tanti motivi per cui la gente non trova il tempo. È più facile conservare il sogno di scrivere nella mente, anziché confrontarsi con la realtà e con il critico che tutti noi abbiamo dentro. La sua voce cattiva andrebbe stanata e messa al bando. Almeno durante la stesura della prima bozza».