il Fatto Quotidiano, 5 gennaio 2023
50 anni si Springsteen
Una sberla. Quando Bruce Springsteen entra nella stanza, John Hammond vorrebbe arrossargli quella faccia butterata, le reminiscenze dell’acne coperte da una barba da naufrago, un cespuglio inestricabile per chioma. Lo sbruffoncello che si è presentato con il manager Mike Appel ha 23 anni e una chitarra disastrata. Hammond sospira: nel suo carnet ci sono Dylan e Billie Holiday, da talent-scout ha fatto le fortune della Columbia. Cosa fare con questo cazzone? “Ok, sentiamo qualcosa”, concede John. Incrocia le mani dietro la testa. Bruce attacca It’s hard to be a saint in the city. Basta quella. “È il tuo giorno fortunato”. Il calendario segna il 2 maggio 1972. Provino andato, il contratto verrà firmato in giugno. Un album d’esordio: il faccia-da-schiaffi può essere inquadrato come un cantautore di New York, un possibile nuovo Dylan, vista la fluviale, immaginifica virtù di testi che procedono di flash in flash, senza coerenza, affollati di personaggi post-beat, pre-punk, emuli di Brando, Dean, Elvis, mezze mignotte, papponi, sirene, vagabondi e stracciaculi di provincia. Un momento: provincia? Sì: Springsteen recalcitra a essere contrabbandato come il prossimo cantore del Village. Lui è del New Jersey! E quello è lo scenario delle sue canzoni, che per Hammond e il capo della Columbia Clive Davis dovrebbero essere in buona parte acustiche e folk, senza premere troppo sull’acceleratore rock’n’roll. Per queste ultime, si provvederà a registrarle, valutano i discografici, con consolidati session men. Bruce si impunta di nuovo: no, al mio fianco voglio i compagni di scorribande. Clarence Clemons, Garry Tallent, David Sancious, Vini Lopez. Mezza formazione di quella che diventerà, più tardi, la E Street Band. Viene convocato anche Steve Van Zandt, ma lo lasciano in panchina: la chitarra può suonarla lo stesso Bruce. Così l’apporto di Van Zandt al disco sarà solo un pugno all’amplificatore, un effetto di rimbombo all’inizio della ballata Lost in the flood. E come lo visualizziamo, questo epos decentrato che rifiuta la residenza a Manhattan? Semplice: glorificando Asbury Park, la cittadina della contea di Monmouth dove il giovane (natio di Freehold) vive in questi anni ruggenti, suonando nei club – lo Stone Pony, l’Upstage – con gli Steel Mill, i Castiles, la Bruce Springsteen Band. Le canzoni nascono nella sua incasinatissima stanza, o in un salone di bellezza abbandonato dove tortura una vecchia spinetta. Per la copertina basta una passeggiata sul boardwalk, il lungomare: Bruce pesca da uno stand una cartolina inumidita dalla salsedine, grafica anni 40, con il casinò, la giostra, il molo dove si va a rubar baci, in questo posto che prende il nome dal vescovo metodista Asbury, e dove peccare è dunque un obbligo. Sulla cartolina noti la scritta Greetings from Asbury Park, N.J., la stessa che oggi campeggia sul Paramount Theatre. Qui, davanti all’Atlantico, dove un giorno l’uragano Sandy tenterà di spazzare via case e cose, la fortuna te la devi sudare. Una prima versione dell’album viene bocciata dalla Columbia: troppi pezzi lenti, meglio toglierne alcuni e aggiungere potenziali singoli rock. A quel punto gli amici musicisti sono impegnati altrove, Springsteen si adopera da solo su quasi tutti gli strumenti per sfornare Spirit in the night e Blinded by the light. Ci siamo: il disco viene pubblicato il 5 gennaio 1973. È nata una stella? Mah: nei negozi del New Jersey se ne trovano poche copie, negli States se ne vendono appena 25mila. Blinded by the light conquisterà il primo posto solo nel ’76, e grazie alla versione di Manfred Mann. Che per un bizzarro fraintendimento vocale, canta come se la Ford Deuce della canzone fosse una “douche”, una lavanda vaginale. “Indovinate quale tra le due storie era la preferita dai ragazzi”, dirà la superstar Springsteen. Cinquant’anni dopo quel debutto, Bruce è atteso in tour in Italia. Si lavora per portarlo anche a Umbria Jazz. Tutto grazie a una cartolina d’epoca.