il Fatto Quotidiano, 5 gennaio 2023
Giustizia all’italiana
L’ultima proposta in tema di giustizia è quella di aumentare le pene per chi imbratta i muri. È la reazione di esponenti della maggioranza all’azione degli attivisti di Ultima Generazione, che hanno gettato vernice sulla facciata del Senato per protestare contro l’inerzia nei confronti della crisi climatica. È da almeno trent’anni che in Italia si continua a modificare il codice penale e, più in generale, le norme sulla giustizia. Si aggiungono reati, si alzano le pene, poi si abbassano. Poi si ricomincia da capo. Nella giostra della giustizia, ci sono fasi in cui aumentano il rigore e la severità. In altre fasi, la politica cerca di difendere se stessa attenuando e depenalizzando, quando si tratta di reati dei colletti bianchi e contro la pubblica amministrazione. Un’altalena impazzita. Poi ci sono momenti in cui il rigore per alcuni si somma al lassismo per altri. Il risultato? Un codice che punisce a caso. Con evidenti incongruenze, contraddizioni, sproporzioni. Una giustizia ingiusta.
C’è il momento dell’indignazione popolare, in cui (come durante Mani pulite, o quando i Cinquestelle diventano primo partito) si tolgono privilegi e si varano leggi più severe. Poi arriva la restaurazione, e ciò che è stato fatto viene smontato o depotenziato. C’è la fase in cui qualche fatto di cronaca (i morti per incidente stradale, o le rapine in villa, o un rave party visto in tv) innescano norme specifiche (il reato di omicidio stradale, i decreti sicurezza, la legge contro i rave). E c’è il momento in cui, finalmente, si prende coscienza di quanto pesino i reati contro le donne (e nasce il “Codice rosso”). La destra di solito sbandiera i fatti di cronaca che provocano allarme sociale e, anche se le statistiche dimostrano che alcuni reati sono in calo, alimenta emergenze a cui risponde con “decreti sicurezza”. Ma l’esito è una giustizia a due velocità: lenta e debole per i forti, rapida e implacabile per i poveri cristi. E sfasata: le pene per l’omicidio stradale sono così alte che “a chi, guidando, uccide un uomo, converrebbe dire di averlo voluto ammazzare, perché con le attenuanti potrebbe ottenere una pena minore”, dice con una battuta l’ex magistrato Piercamillo Davigo.
In principio c’era il codice Rocco. Fascista, ma almeno coerente. In era repubblicana è iniziata una lenta e inesorabile opera di smontaggio e rimontaggio del codice penale, da farlo sembrare un Frankenstein schizofrenico. La grande svolta è arrivata nel 1989, quando si è tentato di riformare il codice di procedura penale introducendo il processo accusatorio: ma lasciando (e poi via via aumentando) le garanzie del precedente processo inquisitorio.
Il risultato è un processo lungo, lento, farraginoso, che poi si è cercato di abbreviare (o meglio: azzerare) con la prescrizione o con la improcedibilità (introdotta dalla riforma Cartabia). Negli ultimi anni, sono state aumentate le pene per lo spaccio di droga o per l’immigrazione clandestina, si sono moltiplicati i “decreti sicurezza”, blocchi stradali e picchetti sindacali e studenteschi sono puniti fino a 6 anni, il furto aggravato a 22. E contemporaneamente si è abbassata la guardia per i reati contro la pubblica amministrazione. Tanto, il problema più grave sembrano essere i rave party, puniti con la legge voluta da Giorgia Meloni con pene fino a 6 anni di carcere: più che l’omicidio colposo (5 anni) o la pedopornografia (3 anni). Ora: pene più severe per chi imbratta i muri. E i colletti bianchi? Quasi intoccabili. Nelle carceri italiane sono solo il 5,3 per cento della popolazione carceraria. In Francia il 5,8. In Germania il 13,2. Del resto, per Roberto Formigoni, i 5 anni e 10 mesi di condanna per corruzione si sono trasformati in soli 5 mesi di detenzione. È andata ancora meglio a Cesare Previti, l’avvocato di Silvio Berlusconi coinvolto in quello che la sentenza definisce “il più grave caso di corruzione nella storia dell’Italia repubblicana”: la condanna definitiva a 6 anni si è tradotta in soli 5 giorni in cella.
Il carcere: in Italia è una Fata Morgana, in cui ciò che si vede non corrisponde a ciò che è. Se si vuole abolirlo, lo si faccia. Ma invece lo si lascia, lo si rende inesorabile per i poveri cristi e solo virtuale per i potenti. Le pene scritte nelle condanne non sono mai reali. Quelle sotto i 4 anni sono inesistenti, quelle sopra sono sempre generosamente ridotte. Si continua a ripetere che in Italia ci sono troppi detenuti, che gli istituti di pena sono sovraffollati, che i loro occupanti sono per lo più in custodia cautelare, non ancora condannati. Tre leggende, spiega Davigo. Il numero dei detenuti in Italia in rapporto alla popolazione è inferiore alla media europea. Il sovraffollamento è determinato dai criteri di misura: 9 metri quadrati per detenuto in Italia, contro i 4 della media Ue. E solo l’8 per cento è detenuto in custodia cautelare, il 71 per cento è di condannati definitivi, il resto è formato da condannati in primo o secondo grado, che in Europa sono conteggiati come “condannati”, in Italia come “in attesa di giudizio”. Certo: la situazione delle carceri italiane è disastrosa, la pena che vi si sconta difficilmente riesce a essere rieducativa. Ma questo anche perché non si fanno interventi di restauro e, quando si fanno, i lavori durano 16 anni, come nel carcere minorile Beccaria di Milano. Agli interventi legislativi per introdurre nuovi reati e modificare quelli già in vigore, si sommano gli interventi che modificano la possibilità di entrare o no in carcere. L’ultimo è stato il 6 dicembre 2022: dentro il decreto legge sui rave party, è stato infilato alla Camera l’emendamento che cancella i reati contro la pubblica amministrazione dall’elenco di quelli “ostativi”, per i quali non sono previsti i benefici penitenziari automatici. Così si è tornati a prima della cosiddetta legge “Spazzacorrotti”, voluta dall’allora ministro della Giustizia del governo Conte 1, Alfonso Bonafede, che aveva aggiunto anche i reati contro la pubblica amministrazione come corruzione, concussione, peculato, nell’elenco di quelli che impediscono di poter godere di benefici automatici e incondizionati: detenzione domiciliare, affidamento ai servizi sociali, libertà condizionata, semilibertà eccetera. In futuro, corrotti e corruttori, politici e colletti bianchi potranno usufruire dei benefici anche prima di entrare in carcere. La giostra italiana della giustizia continua a girare.