Corriere della Sera, 5 gennaio 2023
Biografia di Francesco Pannofino raccontata da lui stesso
Lei un pesce rosso ce l’ha?
«No, l’ho avuto quando ero più giovane. Ma morivano in fretta».
E sul set di «Boris» come è andata?
«Subito dopo le riprese, il pesce rosso di turno veniva spostato dalla boccia di vetro all’acquario. Un po’ di sacrifici ci sono stati...».
Di quale regia è più orgoglioso René Ferretti: «Gli occhi del cuore», «Medical dimension», «Libeccio»?
«Di nessuno. Il suo tormento è aver voluto fare cose di qualità e non esserci mai riuscito».
E qual è il tormento di Francesco Pannofino?
«Non ne ha! Sono talmente contento di quello che ho fatto e che faccio: non posso lamentarmi. Ho avuto tutto quello che ho desiderato. Ho deciso di fare questo mestiere negli anni di piombo con incoscienza e tanta faccia tosta».
È credente?
«Sì. Non proprio bigotto, ma ho un buon rapporto con la fede. Ognuno poi la vede come je pare. Ma poi alla fine che cos’è, la fede, se non conforto e consolazione?».
Frequentava l’oratorio?
«Sì, a Imperia: sono cresciuto lì fino ai 14 anni, poi ci siamo trasferiti a Roma. A quei tempi se volevi giocare a pallone, o andavi all’oratorio o eri fregato. Era stata mia madre, pia donna, a portarmi dai frati. La messa è un bellissimo spettacolo: solo alcun preti lo fanno male, io adoro quelli vivaci e coraggiosi. Io facevo il chierichetto e leggevo Gli atti degli apostoli: le esibizioni mi riuscivano bene».
Che cosa voleva fare da grande?
«Il calciatore. I miei miti erano Rivera, Mazzola e Riva. Allora, però, andavano i giocatori olandesi e quelli della mia età erano alti il doppio di me. O ti chiamavi Maradona, o non avevi speranza di sfondare...».
Francesco Pannofino è una delizia di uomo e di attore. Ci incontriamo nella Sala Albertini del Corriere della Sera e lui si guarda intorno come un bambino nella casa di Babbo Natale, con meraviglia e circospezione. Sarà che a un certo punto avrebbe voluto fare il cronista sportivo, ma in lui c’è autentico rispetto. Che non gli impedisce, naturalmente, di immaginare proprio in questa sala una storia per René Ferretti, il suo fortunato alter ego in Boris, che ha per protagonista un direttore corrotto che tratta male i suoi redattori. Non è il nostro!
«Vi son passato accanto/ vi son passato vicino/ era il 16 marzo/ le 9 e 5 del mattino»: di chi sono questi versi?
«Miei. È Sequestro di Stato, che fu usata come canzone finale nel film Patria, di Felice Farina. La scrissi in una delle pause di Boris, nel mio camerino, con la chitarra».
Il 16 marzo 1978 lei passò in via Fani poco prima dell’agguato ad Aldo Moro e alla sua scorta.
«Dovevo prendere l’autobus per l’università, il motorino era rotto. Mi sono fermato in edicola a prendere il Messaggero. Stavo leggendo in prima pagina la notizia della Juve che era riuscita a passare contro l’Ajax grazie a Zoff, quando sono partite le raffiche. Sono scappato sul lato opposto della strada e con una vicina ci siamo nascosti in una viuzza laterale. Non è durato tanto. Quando sono ritornato indietro c’erano le vittime a terra, i bossoli, il sangue. Sembrava un film. Ma ho realizzato la gravità della cosa a casa: in tivù non si parlava d’altro».
Lo ha raccontato anche davanti alla Commissione stragi del Senato.
«Quarant’anni dopo. Sono stati anni in bianco e nero. Io ero figlio di un carabiniere e non lo dicevo certo in giro».
All’università studiava Matematica.
«Mi ero diplomato all’Istituto tecnico industriale. L’università mi serviva per rimandare il militare e Matematica aveva pochi esami».
Però erano difficili.
«Infatti ne diedi solo tre: Algebra, Geometria 1 e Analisi 1».
Il successo è arrivato a 50 anni, con «Boris», ma lei lavorava già da trenta.
«Nella mia carriera di doppiatore non mi sono fatto mancare niente, come i film porno. Ricordo certe convocazioni il sabato, otto ore, 90 mila lire. Uscivo in debito di ossigeno».
Conquistò sua moglie Emanuela Rossi con la voce di Antonio Banderas.
«Beh, in qualche modo si può dire così: ci siamo conosciuti doppiando Donne sull’orlo di una crisi di nervi, dove io facevo appunto Banderas. A quei tempi si doppiava insieme, nella stessa stanza. Però l’approfondimento lo abbiamo fatto con Forrest Gump: poi è nato Andrea».
Anche lui è doppiatore?
«Un po’ doppiatore e un po’ attore. A 17 anni mi disse solennemente che non avrebbe mai recitato. Poi ha cambiato idea. Del resto, è figlio mio e di sua madre».
Ha recitato anche in «Boris»?
«Sì, una piccola parte nella quarta serie. Certo, è un privilegiato perché ha avuto la possibilità di entrare in campo. Il rovescio è il confronto con i genitori. Sta a lui dimostrare che è bravo».
A quale attore che ha doppiato è più affezionato?
«A George Clooney e a Denzel Washington».
Li ha mai conosciuti?
«Clooney solo per telefono: mi disse che ero bravo, ma era ubriaco: in vino veritas... Denzel lo vorrei conoscere, perché lui recita con gli occhi. Una volta ho incontrato Michael Madsen, cui avevo prestato la voce in Kill Bill. Fu divertente. Mi disse: I love you».
Ha senso il doppiaggio oggi, con le serie tv in lingua originale sottotitolate?
«Il doppiaggio morirà quando tutti impareranno l’inglese. Per come la vedo io, è come la traduzione di un libro: ci dobbiamo fidare del doppiatore. Diciamo che è un trucco cinematografico: te ne accorgi solo se è venuto male».
Ha lavorato anche con John Travolta, per lo spot di una compagnia telefonica.
«Sì, e con Michelle Hunziker. Lui è una persona molto carina. Girammo vicino a casa sua, in Florida: sarebbe anche venuto in Italia pilotando il jet privato, ma il viaggio costava più che far spostare tutti noi in business class».
Ci sono dei lavori ai quali è più legato?
«Agli Esercizi di stile di Raymond Queneau, nella trasposizione teatrale di Jacques Seiler, con Gigi Angelillo e Ludovica Modugno. Facemmo quasi duemila repliche. Nella stessa serata puoi interpretare 60 personaggi! E poi, certo, Boris: il personaggio di René Ferretti è difficile da superare».
Sembra cucito su misura per lei.
«Non so quanti attori hanno fatto il provino. Ma dopo aver visto me dissero: fermi tutti, lo abbiamo trovato».
Un suo ricordo di Mattia Torre?
«Aveva il guizzo dell’ultimo secondo, oltre all’umorismo intelligente. Quelli come lui hanno studiato, non improvvisano. Fu sua l’idea di far recitare mia madre nel film».
Mamma Angela, sarta, nel ruolo della madre di René.
«Era passata lì per salutarmi. Mattia la vide e se ne uscì con questa cosa. Capirai, lei non vedeva l’ora. Fu bravissima, non guardò mai in macchina da presa. Poi ci prese anche gusto e mi chiese di dire al mio agente che se usciva qualche altra piccola parte lei era disponibile».
È venuta a vederla anche a teatro in «Mine Vaganti», di Ferzan Özpetek?
«In questa nuova tournée no, prima sì. È mancata il 27 dicembre. Era ricoverata all’Istituto tumori Giovanni Paolo II di Bari, dove hanno provato a curarla davvero fino all’ultimo. Sono riuscito a salutarla il giorno di Natale, con mia moglie e mio figlio, ma già non ci riconosceva».
Mi dispiace molto... I suoi genitori credevano nella sua carriera di attore/doppiatore?
«Mio padre non tanto, mia madre sempre. Poi quando hanno visto che guadagnavo più di loro si sono tranquillizzati».
È più bello fare cinema, teatro, una serie tv o il doppiaggio?
«Io preferisco diversificare. Il cinema è più intrigante, però è insidioso: se una scena va male la puoi rifare tante volte, ma poi quello che hai fatto resta. Il teatro invece è effimero».
Con quale regista vorrebbe lavorare?
«Mi piacerebbe con Paolo Sorrentino. O Verdone, di cui amo l’umorismo. Anche Pupi Avati mi piace. Quando mi vede dice: “Sei Alberto Sordi!”, però poi non mi chiama».
Le è capitato di incontrare i suoi miti?
«Altroché: De Gregori, Venditti, Lucio Dalla, Enrico Ruggeri di cui sono diventato amico».
E si è emozionato?
«Certo. De Gregori lo incontrai la prima volta nel 1983 a Roma in viale Angelico, mentre mangiava con la moglie fuori da una trattoria. Ero in macchina e quando lo riconobbi non resistetti: avevo appena fatto una tournée al Teatro Stabile di Trieste e la mia colonna sonora era stata per tutto il tempo Titanic, conoscevo le canzoni a memoria. Così mi avvicinai e lui cominciò a gridare: “Nooooo, ti pregoooooo”. Ci rimasi malissimo, volevo solo stringergli la mano e dirgli quanto lo stimassi».
Beh, però era in un momento privato.
«Ma sì. Poi l’ho rivisto 40 anni dopo al concerto di Ruggeri, che mi aveva invitato in camerino, e lo trovai lì. Appena mi vide disse: “France’” e mi abbracciò».
Vantaggi e svantaggi della notorietà?
«I vantaggi superano gli svantaggi. Devo ammettere, però, che quando mi svegliano in treno mentre mi sono appena appisolato non è bellissimo. Uno si scusò: “Signor Pannofino, non potevo farne a meno, lei è un mio fan!”. Beh, a mia volta non potei che replicare: “Genio!”».
Ha ceduto anche lei all’autobiografia. È appena uscito per Aliberti editore il libro-intervista «Dài, dài, dài. La vita a ca**o di cane», scritto con Roberto Corradi.
«Corradi ha insistito, io non volevo, un po’ perché sono rispettoso del lavoro degli altri. Poi, visto che i giornalisti fanno teatro e i cantanti cinema, ho pensato che potevo farcela anch’io!».