Il Mattino, 19 novembre 2022
Intervista a Paolo D’Angelo - su "Benedetto Croce. La biografia. I. Gli anni 1866-1918" (il Mulino)
«La leggenda della mia impassibilità è una leggenda. Io procuro di non perder la testa: ecco tutto. E nondimeno ciò mi è costato e mi costa sforzi dolorosi». Lo scriveva Benedetto Croce all’amico filologo Girolamo Vitelli, confessando un aspetto intimo raramente considerato nei fiumi di pagine scritte su di lui. E proprio questo tratto sarà al centro della monumentale opera cui sta lavorando Paolo D’Angelo, studioso di Estetica e crociano doc (il primo volume di Benedetto Croce-Una biografia, sugli anni 1866-1918, arriverà in libreria il 13 gennaio dal Mulino). A 70 anni dalla morte del 20 novembre del 1952, quando il filosofo aveva 86 anni, «Croce è sempre stato descritto di calma olimpica, in base a un cliché anche urticante, da pensatore per cui tutto procede per il meglio», dice Paolo D’Angelo, «ed è una semplificazione in contrasto con la sua natura reale: dai documenti risulta come Croce attraversasse di continuo momenti di crisi, angosce, depressioni che a tratti gli impedivano di lavorare. Nella biografia ho posto in evidenza questo tratto, che ce lo avvicina di più ed insieme lo allontana dagli stereotipi del filosofo dell’Ottocento, esprimendo inquietudini novecentesche».
Nella vita di Croce ci fu lo iato terribile del terremoto del 1883 in cui perse padre, madre e una sorella: come lo ricostruisce?
«Il mio libro è strutturato molto narrativamente, pur nel pieno rigore documentario cui noi saggisti siamo tenuti, e si apre con il terremoto, non con la prima infanzia. Per lui fu come una seconda nascita, oltre che una tragedia destinata a segnarlo per sempre. Ogni volta che in Italia ci fu un terremoto, Croce si agitò, perse la serenità, scrisse ad amici e autorità. Lo fece soprattutto dopo quello di Messina del 1908 che coinvolse persone a lui vicine come Lombardo Radice e Salvemini, ed in cui perse l’amico Antonio Fusco. Forte è il risvolto personale di quella tragedia: nei primi mesi Croce patisce l’angoscia del sopravvissuto, oltre ad avere danni fisici a gambe e braccia, e avverte fortissimo il peso di essersi salvato».
Poi c’è la svolta: lo zio Silvio Spaventa accoglie in casa sua come tutore, a Roma, lui e il fratello. E Croce si descrive «quasi trasognato, non preparato a quella nuova forma di vita».
«Il terremoto ha anche quest’altro aspetto per lui: il passaggio da un ambiente di famiglia appartato a una svolta verso un mondo stimolantissimo. Casa Spaventa, ministro e consigliere di Stato, è un salotto di giuristi, letterati, politici, giornalisti. E lui giovane già talentuosissimo si trova al centro della politica italiana, in un ambiente vivace, denso di elaborazioni teoriche. Dopo l’iniziale stordimento, sarà decisivo per sollecitare la passione per la filosofia tedesca, la concretezza della storia e del diritto».
Nel primo volume lei arriva alla fine della prima guerra mondiale che aveva visto Croce neutralista. In che senso fu un’altra svolta importante per la sua vita?
«In più sensi. Nel Contributo alla critica di me stesso, scritto nell’aprile 1915 e riletto quando l’Italia sta entrando in guerra, percepisce che la guerra non durerà poco. Già nei mesi precedenti aveva messo in guardia chi si illudeva, scrivendo a Gentile di essere spaventato per il tragico spreco di vite umane. Direi, prendendo in prestito un’espressione di Stefan Zweig, che nel 1918 Croce è ancora un uomo del mondo di ieri, del lungo periodo di pace che va dal 1870 al 1914, e capisce la rottura drammatica in arrivo con la guerra. Ma quel tempo coincide con una svolta anche personale: nel 1913 è morta la compagna Angelina Zampanelli, nel 1914 ha sposato Adele Rossi ed ha scoperto la dolcezza della vita familiare, ma anche le sue preoccupazioni: muore il figlioletto Giulio per una polmonite, s’impensierisce quando una delle quattro figlie si ammala... Croce vive una separazione abbastanza netta tra microcosmo familiare e ambito pubblico. E lì si situa un’altra svolta: la sua opposizione al socialismo, alla mentalità massonica e soprattutto il suo neutralismo lo portano a essere isolato da quanti lo avevano apprezzato e sostenuto, come Prezzolini, Papini, Borgese, tutti interventisti. I giornali dell’epoca gli riservano attacchi brutali dandogli del pantofolaio, imbelle, filotedesco, ignavo. Ed è un’immagine del tutto diversa da quella del celebrato papa della cultura italiana sempre descritta. Emilio Cecchi parlerà poi di una fama costruita a fior di ceffoni».
«Tutt’e due, anzi tutt’e tre. Anche europeo, per i suoi interessi e contatti con tutti i grandi di allora, da Mann a Einstein, per il suo continuo viaggiare. Abruzzese lo è soprattutto nei tratti caratteriali così ben descritti dalla figlia Elena. Napoletano per lo straordinario amore per la città, evidente nella legge in difesa del patrimonio artistico-ambientale come nei suoi scritti e nell’interesse per la cultura materiale. Fin nei suoi dettagli minuti».